VIII DOMENICA DOPO PENTECOSTE – COMMENTO ALLE LETTURE
15/08/2018
VIII DOMENICA DOPO PENTECOSTE
COMMENTO ALLE LETTURE
Alberto Maggi OSM -VANGELO: Mc 10, 35-45
don Raffaello Ciccone –
PRIMA LETTURA – Giudici. 2, 6-17 – SECONDALETTURA -Pr. lettera di Paolo ai Tessalonicesi 2, 1-2. 4 -12
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Alberto Maggi OSM
IL FIGLIO DELL’UOMO E’ VENUTO PER DARE LA PROPRIA VITA IN RISCATTO PER MOLTI -
Mc 10, 35-45
si avvicinarono a Gesù Giacomo e Giovanni, i figli di Zebedèo, dicendogli: «Maestro, vogliamo che tu faccia per noi quello che ti chiederemo».
Egli disse loro: «Che cosa volete che io faccia per voi?». Gli risposero:«Concedici di sedere, nella tua gloria, uno alla tua destra e uno alla tua sinistra».
Gesù disse loro: «Voi non sapete quello che chiedete. Potete bere il calice che io bevo, o essere battezzati nel battesimo in cui io sono battezzato?». Gli risposero: «Lo possiamo». E Gesù disse loro: «Il calice che io bevo, anche voi lo berrete, e nel battesimo in cui io sono battezzato anche voi sarete battezzati. Ma sedere alla mia destra o alla mia sinistra non sta a me concederlo; è per coloro per i quali è stato preparato». Gli altri dieci, avendo sentito, cominciarono a indignarsi con Giacomo e Giovanni. Allora Gesù li chiamò a sé e disse loro: «Voi sapete che coloro i quali sono considerati i governanti delle nazioni dominano su di esse e i loro capi le opprimono. Tra voi però non è così; ma chi vuole diventare grande tra voi sarà vostro servitore, e chi vuole essere il primo tra voi sarà schiavo di tutti. Anche il Figlio dell’uomo infatti non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti».
Dio è amore che si mette a servizio degli uomini. E cerca uomini che lo accolgono per fondersi con loro e farli diventare l’unico vero santuario dal quale si irradia il suo amore, al sua compassione e il servizio all’umanità.
L’ostacolo all’accoglienza di questo amore nei vangeli si chiama “ambizione”, “vanità”.
Ambizione e vanità, che specialmente nelle persone religiose, diventano degli handicap. Infatti le rendono cieche e sorde all’annunzio del Signore. E’ quello che l’evangelista ci vuole
insegnare con questo brano del vangelo di Marco, cap. 10, versetti 35-45. Nonostante che Gesù per la terza volta – nel linguaggio biblico il numero tre significa “completamente, pienamente” – abbia annunziato qual è il suo futuro, cioè la morte a Gerusalemme per mano del potere religioso e civile, due discepoli, Giacomo e Giovanni si avvicinano a lui. In realtà non gli sono vicini, lo accompagnano, ma non lo seguono. Si avvicinano per cosa? Gli dicono: “Vogliamo che tu faccia per noi quello che ti chiederemo”, quasi con arroganza espongono questa loro esigenza. E cosa vogliono? Vogliono i posti d’onore. Gesù ha detto che a Gerusalemme sarà ammazzato, ma l’ambizione e la vanità – come abbiamo detto – rendono le persone cieche e sorde. Lo chiamano Maestro, ma non lo ascoltano. Vogliono i posti più importanti.
E Gesù li tratta da ignoranti, dice che non sanno quello che chiedono. “Potete bere il calice che io bevo”, il calice in questo caso è indice di sofferenza, di dolore, di morte, “o essere battezzati”
… il battesimo significa “essere immersi” nella prova nella quale Gesù sarà sottoposto. E loro con arroganza rispondono: “Lo possiamo”.
Di fatto Marco poi scriverà al momento della cattura di Gesù “Tutti allora abbandonatolo fuggirono”. Infatti Gesù dice: “Sì anche voi passerete la prova che io passo, “anche voi berrete
a questo calice”, e sarete travolti da questi avvenimenti” ma in senso negativo. Infatti soccomberanno tutti quanti al momento della prova. Ebbene la richiesta dei due discepoli
provoca l’indignazione degli altri dieci, non perché si scandalizzino, ma perché tutti ambivano agli stessi posti d’onore e quindi l’ambizione di pochi suscita la divisione nella comunità, divisione che può portare alla morte.
Allora ecco l’importante insegnamento di Gesù. Gesù li deve chiamare, e se li chiama è perché gli sono lontani, prende l’esempio dei governanti e l’opinione che Gesù ha è molto negativa, dice “Voi sapete che coloro i quali sono considerati i governanti delle nazioni dominano”, cioè spadroneggiano, “ su di esse e i loro capi le opprimono”, letteralmente impongono la loro autorità.
Ebbene Gesù per tre volte afferma: “Tra di voi però non sia così”. Qualunque imitazione delle strutture di potere, di obbedienza, di sottomissione, che esistono all’interno della società e vengono poi fatte rinascere nella comunità cristiana, vanno eliminate. Sono tutte sospette e non appartengono a Gesù e al suo messaggio. Quindi questi rapporti tra superiori e inferiori, tra chi comanda e chi ubbidisce, non fanno parte
della comunità cristiana. Quindi Gesù è molto chiaro. “Tra voi però non è così”. E poi Gesù dice: “Chi vuol diventare grande …”, quindi Gesù ammette l’ambizione alla grandezza, che però si manifesta attraverso il servizio. “Tra voi sarà vostro servitore”. Servire, per Gesù, non diminuisce e non toglie la dignità dell’uomo, ma è ciò che gli conferisce la vera grandezza. Quindi il servizio è quello che dà all’uomo la vera grandezza. Naturalmente un servizio perché si è obbligato, perché in tal caso è un servizio che umilia. Il servizio che volontariamente viene esercitato per amore dell’altro, mettere quello che io ho a disposizione dell’altro, per comunicargli vita.
E Gesù continua: “Chi vuol essere il primo”, quindi Gesù non esclude la possibilità per alcuni di essere il primo, laddove il primo significa il più vicino a lui. “Chi vuole essere il primo tra voi sarà schiavo di tutti”. Lo schiavo in quella cultura, in quella società, era il livello più infimo. Quindi Gesù ammette grandezza, ammette anche l’essere primi, ma come si arriva a questa grandezza, ad essere i più vicini a lui?
Attraverso il servizio reso per amore agli altri e accettando di essere considerati gli ultimi della società. Perché? Ed ecco la grande rivelazione di Gesù, in una cultura e in una religione, come in tutte le altre in cui le divinità pretendevano di essere servite dagli uomini, “Anche il Figlio dell’uomo infatti non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti”.
Questo è il Dio di Gesù. Il Dio di Gesù non è un Dio che chiede, ma un Dio che dona, non è un Dio che chiede agli uomini di servirlo, ma è lui che si mette a servizio degli uomini. E gli uomini che accolgono questo servizio, trasportati dall’onda di questo amore che si traduce in comunicazione di vita, di opere, si mettono anche loro a servizio degli altri, moltiplicando così l’azione creatrice del padre.
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Don Raffaello Ciccone
Lettura del libro dei Giudici. 2, 6-17
Israele vive un periodo difficilissimo mentre cerca di insediarsi sul territorio che il Signore ha loro assegnato.
Non c’è ancora una nazione d’Israele poiché vale molto di più il rapporto tribale. Ognuno si colloca con le proprie possibilità e cerca i mezzi di sopravvivenza. L’unità di popolo avverrà con la monarchia di Davide, attorno all’anno 1000 a C. Così il libro dei “Giudici” fa riferimento ad un periodo precedente, che va dalla morte di Giosuè (circa il 1220-1200 a.C.) all’inizio dell’epoca monarchica. Vengono raccontate le avventure di alcuni particolari capi del popolo, chiamati “giudici” che diventano capi tribù e cercano di affrontare i nemici che attentano alla libertà e alle risorse delle tribù.
Il periodo del racconto raccoglie, complessivamente, fatti e battaglie di circa 160-180 anni.
Scelto per le situazioni difficili che turbano la vita di una o più tribù della comunità, ma non mai molte, il “Giudice” viene considerato un “liberatore”, inviato da Dio che finalmente ha accettato di ascoltare il grido di sofferenza. Così, diversi per esperienza e per educazione, i “Giudici” sanno riportare il popolo alla sua riconquistata libertà e quindi ricostruiscono un rapporto di pace con il Signore stesso.
Nei vv 2,6-10 il testo si ricollega al libro di Giosuè per indicare una continuità, sul filo dell’accordo compiuto con Dio nell’assemblea di Sichem (Giosuè 24,1ss) quando tutto il popolo d’Israele, nelle sue 12 tribù, sancì il patto con Dio dopo aver ascoltato le parole di Giosuè. Questi, ricordati i fatti della liberazione, aveva chiesto alle tribù la disponibilità a servire Dio. Il popolo aveva risposto: “Noi serviremo il Signore” (v 21).
L’autore di questo libro garantisce che la generazione di Giosuè, con tutti quei personaggi che avevano sperimentato la protezione di Dio nel deserto, avevano tenuto fede all’impegno assunto (v 7).
Ma, col passar del tempo (vv 11-17), la storia di Israele si intorbida. Che cosa, infatti, è diventato, agli occhi di Dio, questo popolo, liberato attraverso Mosè?
Lo scrittore deve dare una risposta coerente alla fede ed ai costumi del suo tempo. Così egli compie una interpretazione teologica: Dio ha abbandonato il suo popolo e non ascolta più il loro grido poiché Israele compie il male ed ha abbandonato il Dio dell’Esodo per seguire altre divinità.
E’ venuto meno al patto, tradendo il Signore e accogliendo le stesse usanze, costumi, mentalità dei popoli entro cui si ritrova ad abitare. Essi facilmente si lasciano ingannare e illudere dalle civiltà più evolute; essendo stati schiavi prima, ed ora contadini e ignoranti pastori, sono affascinati dal benessere dei popoli della costa, molto più ricchi perché dediti al commercio.
Il benessere viene scambiato come un regalo ottenuto dagli dei per il dono di offerte o loro carpito con pratiche magiche e usi pagani. Non è lontano il paradigma del primo peccato dell’umanità, quello di Adamo ed Eva. La prima umanità segue le stesse dinamiche, volendo raggiungere una propria potenza, immaginando poteri sovrumani. Nell’idolatria si può ricattare Dio, lo si costringe, lo si obbliga alla fecondità della terra, degli animali e delle donne.
Si ritorna a parlare di schiavitù: “Furono depredati, furono venduti ai nemici che stavano loro intorno ai quali non potevano più tener testa” (v 14). Il Signore, tuttavia, finalmente si occupa della liberazione di questo suo popolo come ha sempre fatto e perciò “fece sorgere dei Giudici” (v 16).
Ma l’idolatria non scompare facilmente dall’orizzonte umano, anche nell’ambito della vita quotidiana dei credenti di oggi. Idolatria significa mettere al primo posto delle proprie scelte e della propria vita, ciò che non è Dio stesso, ciò che io o la società riteniamo fondamentale:. Ci creiamo degli Assoluti. Ma la conclusione conduce alla guerra, alla violenza, alla mancanza del necessario mentre cresce la ricchezza di classi privilegiate. Prima lettera di san Paolo apostolo ai Tessalonicesi2, 1-2. 4-12 Paolo si dimostra subito particolarmente affezionato a questa comunità che lo ha accolto dopo le fatiche morali e fisiche subite a Filippi (At 16,19-40). Egli, in questo testo, vuole sottolineare la chiarezza e l’onestà della proposta che fa del Vangelo e vuole richiamare la gratuità della sua opera.
Egli sa che il Vangelo è Gesù, dono del Padre, e la sua vocazione deve prendere atto di testimoniare l’amore di Gesù, totalmente gratuito come dono del Padre.
Paolo ha capito che la gratuità è la discriminante per scoprire l’opera di Dio.. In tal modo aiuta anche noi un’analisi puntuale delle cose che Paolo enumera.
– “Non ho cercato di piacere agli uomini e quindi non mi sono permesso di adulare per aprirmi un varco nella comprensione e nella simpatia delle persone;
– Non ho cercato la gloria umana né da voi né da altri, pur potendolo fare, in nome della mia autorità;
– Sono stato amorevole tra voi come una madre che ha cura dei figli;
– Nel mio attaccamento a voi vi avrei dato anche gratuitamente la vita;
– Sempre per gratuità, ho lavorato duramente giorno e notte per guadagnarmi il pane e non essere di peso a nessuno;
– Con ogni mezzo e gratuitamente ho cercato di parlarvi, di darvi esempio e di incoraggiarvi alla sapienza ed all’accogliere il Vangelo di Gesù che io mi glorio di portare come una missione ed un compito. E’ la vocazione: che Dio mi ha affidato. Mi sono sforzato di non piacere agli uomini ma a Dio che conosce il cuore di ciascuno”;
Il compito educativo non è solo materno ma ugualmente paterno e Paolo sente che deve svolgere insieme questo ruolo, prezioso ed importante, valorizzato particolarmente nel mondo ebraico, poiché è il padre che trasmette la Sapienza di Dio alle nuove generazioni.
Per questo Paolo chiede ai cristiani ed anche a Dio di essergli “testimoni del suo comportamento: “santo, giusto e irreprensibile”; Paolo ricorda che “abbiamo esortato ciascuno di voi, e incoraggiato e scongiurato di comportarvi in maniera degna di Dio” (vv 11-12).
In questa prima lettera ai Tessalonicesi, Paolo utilizza la parola greca “parresia” che significa: “parlare con chiarezza, coraggio e verità” e constata che non è stata vuota la sua presenza né tanto meno inutile.
Paolo, in tal modo, ha chiarito un atteggiamento fondamentale dell’adulto credente: operare nella gratuità. E’ la caratteristica essenziale di Dio che Gesù ha tradotto ogni giorno e che lo sforzo che la Comunità cristiana dovrebbe riproporre nei suoi criteri, stili, proposte, operosità. Nel mondo è così stupefacente che insieme meraviglia, e crea diffidenza, sospetto e dubbi di ambiguità. Eppure, anche se difficile, è un orizzonte da tenere continuamente presente.
VIII DOMENICA DOPO PENTECOSTE – COMMENTO ALLE LETTURE
15/08/2018
VIII DOMENICA DOPO PENTECOSTE
COMMENTO ALLE LETTURE
Alberto Maggi OSM -VANGELO: Mc 10, 35-45
don Raffaello Ciccone –
PRIMA LETTURA – Giudici. 2, 6-17 – SECONDA LETTURA -Pr. lettera di Paolo ai Tessalonicesi 2, 1-2. 4 -12
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Alberto Maggi OSM
IL FIGLIO DELL’UOMO E’ VENUTO PER DARE LA PROPRIA VITA IN RISCATTO PER MOLTI -
Mc 10, 35-45
si avvicinarono a Gesù Giacomo e Giovanni, i figli di Zebedèo, dicendogli: «Maestro, vogliamo che tu faccia per noi quello che ti chiederemo».
Egli disse loro: «Che cosa volete che io faccia per voi?». Gli risposero:«Concedici di sedere, nella tua gloria, uno alla tua destra e uno alla tua sinistra».
Gesù disse loro: «Voi non sapete quello che chiedete. Potete bere il calice che io bevo, o essere battezzati nel battesimo in cui io sono battezzato?». Gli risposero: «Lo possiamo». E Gesù disse loro: «Il calice che io bevo, anche voi lo berrete, e nel battesimo in cui io sono battezzato anche voi sarete battezzati. Ma sedere alla mia destra o alla mia sinistra non sta a me concederlo; è per coloro per i quali è stato preparato». Gli altri dieci, avendo sentito, cominciarono a indignarsi con Giacomo e Giovanni. Allora Gesù li chiamò a sé e disse loro: «Voi sapete che coloro i quali sono considerati i governanti delle nazioni dominano su di esse e i loro capi le opprimono. Tra voi però non è così; ma chi vuole diventare grande tra voi sarà vostro servitore, e chi vuole essere il primo tra voi sarà schiavo di tutti. Anche il Figlio dell’uomo infatti non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti».
Dio è amore che si mette a servizio degli uomini. E cerca uomini che lo accolgono per fondersi con loro e farli diventare l’unico vero santuario dal quale si irradia il suo amore, al sua compassione e il servizio all’umanità.
L’ostacolo all’accoglienza di questo amore nei vangeli si chiama “ambizione”, “vanità”.
Ambizione e vanità, che specialmente nelle persone religiose, diventano degli handicap. Infatti le rendono cieche e sorde all’annunzio del Signore. E’ quello che l’evangelista ci vuole
insegnare con questo brano del vangelo di Marco, cap. 10, versetti 35-45. Nonostante che Gesù per la terza volta – nel linguaggio biblico il numero tre significa “completamente, pienamente” – abbia annunziato qual è il suo futuro, cioè la morte a Gerusalemme per mano del potere religioso e civile, due discepoli, Giacomo e Giovanni si avvicinano a lui. In realtà non gli sono vicini, lo accompagnano, ma non lo seguono. Si avvicinano per cosa? Gli dicono: “Vogliamo che tu faccia per noi quello che ti chiederemo”, quasi con arroganza espongono questa loro esigenza. E cosa vogliono? Vogliono i posti d’onore. Gesù ha detto che a Gerusalemme sarà ammazzato, ma l’ambizione e la vanità – come abbiamo detto – rendono le persone cieche e sorde. Lo chiamano Maestro, ma non lo ascoltano. Vogliono i posti più importanti.
E Gesù li tratta da ignoranti, dice che non sanno quello che chiedono. “Potete bere il calice che io bevo”, il calice in questo caso è indice di sofferenza, di dolore, di morte, “o essere battezzati”
… il battesimo significa “essere immersi” nella prova nella quale Gesù sarà sottoposto. E loro con arroganza rispondono: “Lo possiamo”.
Di fatto Marco poi scriverà al momento della cattura di Gesù “Tutti allora abbandonatolo fuggirono”. Infatti Gesù dice: “Sì anche voi passerete la prova che io passo, “anche voi berrete
a questo calice”, e sarete travolti da questi avvenimenti” ma in senso negativo. Infatti soccomberanno tutti quanti al momento della prova. Ebbene la richiesta dei due discepoli
provoca l’indignazione degli altri dieci, non perché si scandalizzino, ma perché tutti ambivano agli stessi posti d’onore e quindi l’ambizione di pochi suscita la divisione nella comunità, divisione che può portare alla morte.
Allora ecco l’importante insegnamento di Gesù. Gesù li deve chiamare, e se li chiama è perché gli sono lontani, prende l’esempio dei governanti e l’opinione che Gesù ha è molto negativa, dice “Voi sapete che coloro i quali sono considerati i governanti delle nazioni dominano”, cioè spadroneggiano, “ su di esse e i loro capi le opprimono”, letteralmente impongono la loro autorità.
Ebbene Gesù per tre volte afferma: “Tra di voi però non sia così”. Qualunque imitazione delle strutture di potere, di obbedienza, di sottomissione, che esistono all’interno della società e vengono poi fatte rinascere nella comunità cristiana, vanno eliminate. Sono tutte sospette e non appartengono a Gesù e al suo messaggio. Quindi questi rapporti tra superiori e inferiori, tra chi comanda e chi ubbidisce, non fanno parte
della comunità cristiana. Quindi Gesù è molto chiaro. “Tra voi però non è così”. E poi Gesù dice: “Chi vuol diventare grande …”, quindi Gesù ammette l’ambizione alla grandezza, che però si manifesta attraverso il servizio. “Tra voi sarà vostro servitore”. Servire, per Gesù, non diminuisce e non toglie la dignità dell’uomo, ma è ciò che gli conferisce la vera grandezza. Quindi il servizio è quello che dà all’uomo la vera grandezza. Naturalmente un servizio perché si è obbligato, perché in tal caso è un servizio che umilia. Il servizio che volontariamente viene esercitato per amore dell’altro, mettere quello che io ho a disposizione dell’altro, per comunicargli vita.
E Gesù continua: “Chi vuol essere il primo”, quindi Gesù non esclude la possibilità per alcuni di essere il primo, laddove il primo significa il più vicino a lui. “Chi vuole essere il primo tra voi sarà schiavo di tutti”. Lo schiavo in quella cultura, in quella società, era il livello più infimo. Quindi Gesù ammette grandezza, ammette anche l’essere primi, ma come si arriva a questa grandezza, ad essere i più vicini a lui?
Attraverso il servizio reso per amore agli altri e accettando di essere considerati gli ultimi della società. Perché? Ed ecco la grande rivelazione di Gesù, in una cultura e in una religione, come in tutte le altre in cui le divinità pretendevano di essere servite dagli uomini, “Anche il Figlio dell’uomo infatti non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti”.
Questo è il Dio di Gesù. Il Dio di Gesù non è un Dio che chiede, ma un Dio che dona, non è un Dio che chiede agli uomini di servirlo, ma è lui che si mette a servizio degli uomini. E gli uomini che accolgono questo servizio, trasportati dall’onda di questo amore che si traduce in comunicazione di vita, di opere, si mettono anche loro a servizio degli altri, moltiplicando così l’azione creatrice del padre.
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Don Raffaello Ciccone
Lettura del libro dei Giudici. 2, 6-17
Israele vive un periodo difficilissimo mentre cerca di insediarsi sul territorio che il Signore ha loro assegnato.
Non c’è ancora una nazione d’Israele poiché vale molto di più il rapporto tribale. Ognuno si colloca con le proprie possibilità e cerca i mezzi di sopravvivenza. L’unità di popolo avverrà con la monarchia di Davide, attorno all’anno 1000 a C. Così il libro dei “Giudici” fa riferimento ad un periodo precedente, che va dalla morte di Giosuè (circa il 1220-1200 a.C.) all’inizio dell’epoca monarchica. Vengono raccontate le avventure di alcuni particolari capi del popolo, chiamati “giudici” che diventano capi tribù e cercano di affrontare i nemici che attentano alla libertà e alle risorse delle tribù.
Il periodo del racconto raccoglie, complessivamente, fatti e battaglie di circa 160-180 anni.
Scelto per le situazioni difficili che turbano la vita di una o più tribù della comunità, ma non mai molte, il “Giudice” viene considerato un “liberatore”, inviato da Dio che finalmente ha accettato di ascoltare il grido di sofferenza. Così, diversi per esperienza e per educazione, i “Giudici” sanno riportare il popolo alla sua riconquistata libertà e quindi ricostruiscono un rapporto di pace con il Signore stesso.
Nei vv 2,6-10 il testo si ricollega al libro di Giosuè per indicare una continuità, sul filo dell’accordo compiuto con Dio nell’assemblea di Sichem (Giosuè 24,1ss) quando tutto il popolo d’Israele, nelle sue 12 tribù, sancì il patto con Dio dopo aver ascoltato le parole di Giosuè. Questi, ricordati i fatti della liberazione, aveva chiesto alle tribù la disponibilità a servire Dio. Il popolo aveva risposto: “Noi serviremo il Signore” (v 21).
L’autore di questo libro garantisce che la generazione di Giosuè, con tutti quei personaggi che avevano sperimentato la protezione di Dio nel deserto, avevano tenuto fede all’impegno assunto (v 7).
Ma, col passar del tempo (vv 11-17), la storia di Israele si intorbida. Che cosa, infatti, è diventato, agli occhi di Dio, questo popolo, liberato attraverso Mosè?
Lo scrittore deve dare una risposta coerente alla fede ed ai costumi del suo tempo. Così egli compie una interpretazione teologica: Dio ha abbandonato il suo popolo e non ascolta più il loro grido poiché Israele compie il male ed ha abbandonato il Dio dell’Esodo per seguire altre divinità.
E’ venuto meno al patto, tradendo il Signore e accogliendo le stesse usanze, costumi, mentalità dei popoli entro cui si ritrova ad abitare. Essi facilmente si lasciano ingannare e illudere dalle civiltà più evolute; essendo stati schiavi prima, ed ora contadini e ignoranti pastori, sono affascinati dal benessere dei popoli della costa, molto più ricchi perché dediti al commercio.
Il benessere viene scambiato come un regalo ottenuto dagli dei per il dono di offerte o loro carpito con pratiche magiche e usi pagani. Non è lontano il paradigma del primo peccato dell’umanità, quello di Adamo ed Eva. La prima umanità segue le stesse dinamiche, volendo raggiungere una propria potenza, immaginando poteri sovrumani. Nell’idolatria si può ricattare Dio, lo si costringe, lo si obbliga alla fecondità della terra, degli animali e delle donne.
Si ritorna a parlare di schiavitù: “Furono depredati, furono venduti ai nemici che stavano loro intorno ai quali non potevano più tener testa” (v 14). Il Signore, tuttavia, finalmente si occupa della liberazione di questo suo popolo come ha sempre fatto e perciò “fece sorgere dei Giudici” (v 16).
Ma l’idolatria non scompare facilmente dall’orizzonte umano, anche nell’ambito della vita quotidiana dei credenti di oggi. Idolatria significa mettere al primo posto delle proprie scelte e della propria vita, ciò che non è Dio stesso, ciò che io o la società riteniamo fondamentale:. Ci creiamo degli Assoluti. Ma la conclusione conduce alla guerra, alla violenza, alla mancanza del necessario mentre cresce la ricchezza di classi privilegiate.
Prima lettera di san Paolo apostolo ai Tessalonicesi2, 1-2. 4-12
Paolo si dimostra subito particolarmente affezionato a questa comunità che lo ha accolto dopo le fatiche morali e fisiche subite a Filippi (At 16,19-40). Egli, in questo testo, vuole sottolineare la chiarezza e l’onestà della proposta che fa del Vangelo e vuole richiamare la gratuità della sua opera.
Egli sa che il Vangelo è Gesù, dono del Padre, e la sua vocazione deve prendere atto di testimoniare l’amore di Gesù, totalmente gratuito come dono del Padre.
Paolo ha capito che la gratuità è la discriminante per scoprire l’opera di Dio.. In tal modo aiuta anche noi un’analisi puntuale delle cose che Paolo enumera.
– “Non ho cercato di piacere agli uomini e quindi non mi sono permesso di adulare per aprirmi un varco nella comprensione e nella simpatia delle persone;
– Non ho cercato la gloria umana né da voi né da altri, pur potendolo fare, in nome della mia autorità;
– Sono stato amorevole tra voi come una madre che ha cura dei figli;
– Nel mio attaccamento a voi vi avrei dato anche gratuitamente la vita;
– Sempre per gratuità, ho lavorato duramente giorno e notte per guadagnarmi il pane e non essere di peso a nessuno;
– Con ogni mezzo e gratuitamente ho cercato di parlarvi, di darvi esempio e di incoraggiarvi alla sapienza ed all’accogliere il Vangelo di Gesù che io mi glorio di portare come una missione ed un compito. E’ la vocazione: che Dio mi ha affidato. Mi sono sforzato di non piacere agli uomini ma a Dio che conosce il cuore di ciascuno”;
Il compito educativo non è solo materno ma ugualmente paterno e Paolo sente che deve svolgere insieme questo ruolo, prezioso ed importante, valorizzato particolarmente nel mondo ebraico, poiché è il padre che trasmette la Sapienza di Dio alle nuove generazioni.
Per questo Paolo chiede ai cristiani ed anche a Dio di essergli “testimoni del suo comportamento: “santo, giusto e irreprensibile”; Paolo ricorda che “abbiamo esortato ciascuno di voi, e incoraggiato e scongiurato di comportarvi in maniera degna di Dio” (vv 11-12).
In questa prima lettera ai Tessalonicesi, Paolo utilizza la parola greca “parresia” che significa: “parlare con chiarezza, coraggio e verità” e constata che non è stata vuota la sua presenza né tanto meno inutile.
Paolo, in tal modo, ha chiarito un atteggiamento fondamentale dell’adulto credente: operare nella gratuità. E’ la caratteristica essenziale di Dio che Gesù ha tradotto ogni giorno e che lo sforzo che la Comunità cristiana dovrebbe riproporre nei suoi criteri, stili, proposte, operosità. Nel mondo è così stupefacente che insieme meraviglia, e crea diffidenza, sospetto e dubbi di ambiguità. Eppure, anche se difficile, è un orizzonte da tenere continuamente presente.