QUINTA DOMENICA DI PASQUA anno A – COMMENTO ALLE LETTURE
14/5/2017
QUINTA DOMENICA DI PASQUA anno A
COMMENTO ALLE LETTURE Di Don Raffaello Ciccone e di Teresa Ciccolini
Giovanni. 14, 21-24
Continua Gesù a preoccuparsi che i suoi discepoli abbiano capito che cosa vuol dire averLo come Vivente in mezzo a loro e come debbano continuare a renderlo conosciuto e presente a tutti. E’ questa la rivoluzione pasquale. E ancora oggi ci sentiamo parlare di ‘novità’, di quei ‘comandamenti’ di cui ha fatto cenno diverse volte e che anche noi abbiamo ascoltato infinite volte, senza che cambiasse qualcosa di effettivo in noi.
“Se mi amate“, “chi mi ama“, “se uno mi ama“; ma certo, Signore che ti amiamo, almeno vorremmo amarti davvero; ma tu ci dici le solite cose: osservare la tua parola, ricondurla al Padre, faremo dimora in lui…….
E’ vero, Signore, quante volte abbiamo sentito e sentiamo queste parole, ma le lasciamo scivolare nel nostro cuore come se fossero scontate, come se ormai sapessimo già che cosa vogliono dire. E’ invece proprio sull’esperienza dell’amore che noi continuiamo a balbettare, a sorvolare, perché l’amore vero spaventa: è totale.
Qui Gesù ci sta chiedendo di rimetterci completamente a Lui, di uscire da noi stessi, o meglio di rientrarvi, ma così a fondo, da renderci conto di essere “una cosa sola” con Lui.
Ma davvero siamo convinti di essere “una cosa sola” con il Signore? Che non c’è paradossalmente più bisogno di ascoltare la sua parola, perché siamo un tutt’uno?
Gesù continua a chiederci di amarlo e che questo vuol dire rintracciare la sua presenza e la sua parola in tutti coloro che incontriamo e incrociamo.
Senza tante domande e tergiversazioni, ma come ha fatto Lui: prendendosi effettivamente a cuore le persone. Proviamo a domandarci nel sottovoce della nostra coscienza: chi si prende a cuore dei Siriani, dei profughi, delle donne violentate, dei crocifissi delle guerre di religione, delle stragi? Oppure: li sentiamo presenti nelle nostre asettiche, ma ambrosianissime, celebrazioni?
Prendersi a cuore vuol dire che, anche se non posso intervenire che con qualche breve offerta, queste persone fanno parte della mia vita, e, in qualche modo, dovrò risponderne anch’io. Don Raffaello Ciccone e di Teresa Ciccolini
Atti degli Apostoli. 10, 1-5. 24. 34-36. 44-
La conversione di Cornelio, un centurione che coltiva un profondo rispetto per la religione d’Israele, come l’altro centurione di Cafarnao, ricordato da Luca (Lc7,1-10), è un avvenimento fondamentale dopo la risurrezione per la Comunità cristiana. Essa sta orientandosi sulle scelte di Gesù che vengono via via proposte attraverso segni, visioni, avvenimenti e, addirittura, nelle diverse discese dello Spirito.
La Comunità di Gerusalemme è rimasta molto legata all’ebraismo per cui i pagani, comunque, sono considerati lontani dall’accoglienza di Dio poiché non fanno parte del suo popolo. Per farne parte, ricordano che non sia sufficiente essere giusti, dare elemosine e pregare. E’ necessaria la circoncisione che li costituisce popolo come un popolo santo. Così pensano tutti e così Pietro si comporta. D’altra parte, anche Gesù non ha mai inserito, tra i suoi discepoli, dei pagani, né ha predicato loro.
Perciò questo episodio, di incontro di Pietro con Cornelio, ha una grande rilevanza negli Atti degli Apostoli come racconto di una svolta fondamentale, operata nel nome di Gesù. E viene riportato in due capitoli successivi: nel cap.10 si rammentano, con molti particolari, la vicenda così come è avvenuta, e nel cap. 11 è Pietro stesso che riferisce alla comunità di Gerusalemme i fatti, palesemente, per garantire e motivare questa sua esperienza missionaria.
Tutto si svolge in modo imprevedibile. Pietro è invitato, in modo sorprendente, da uno sconosciuto che gli chiede di andare in un paese lontano molti chilometri presso un centurione. Quando arriva, trova molte persone che lo aspettano, tutte estranee al mondo ebraico. Mentre entra in casa, Cornelio, il centurione, gli si getta ai piedi per rendergli omaggio (v 25) e Pietro lo rialza dicendogli: “Alzati poiché anch’io sono un uomo” (v 26). Pietro, dai segni ricevuti e dell’accoglienza, si rende conto che qui vanno riconosciute uguale umanità e parità; e lo esprime subito con le parole: “Mi sto rendendo conto che Dio non fa preferenza di persone”. Pietro manifesta la sorpresa e l’inizio di una consapevolezza: nella Chiesa si dovrà continuamente essere richiamati a infinite novità: Dio parlerà non solo attraverso ciò che ha detto Gesù, ma si svelerà anche attraverso segni, situazioni, contesti e culture diverse, cioè attraverso la storia del mondo, filtrati sempre dallo stile e dall’amore di Gesù. Il Concilio ce lo ha ripetuto più volte.
Dopo il parlare di Pietro che, ovviamente, svela il volto di Gesù e quindi suggerisce la fede in Lui, avviene un fatto straordinario: l’effusione del dono dello Spirito Santo. Ed è particolare questa presenza dello Spirito in persone che sono ancora pagane e che tuttavia si aprono a Gesù nella fede.
Lo stupore degli ebrei, che accompagnano Pietro, si accresce quando debbono constatare che è avvenuto lo stesso dono dello Spirito come nella Pentecoste a Gerusalemme. E questi pagani non sono ancora battezzati. Lo farà allora Pietro dicendo: «Chi può impedire che siano battezzati nell’acqua questi che hanno ricevuto, come noi, lo Spirito Santo?» (v 47). L’esperienza dello Spirito apre immediatamente al dono delle lingue: il Signore, infatti, spinge coloro che credono in Lui a portare nel mondo la novità di Dio nella fede in Gesù che si è manifestato e in cui credono.
Vale per tutti: siano essi pagani che si convertono senza passare attraverso l’iniziazione ebraica della circoncisione e siano cristiani di Gerusalemme. Tutti sentono che, per essere seguaci di Gesù nel mondo, non debbono solo credere in Lui e dare elemosine ma, più profondamente, diffondere in tutti la fede di Gesù che è speranza e dono per ogni persona nel mondo. Filippesi. 2, 12-16
La lettera ai Filippesi è tradizionalmente legata alle lettere della prigionia di Paolo: lo si pensi prigioniero a Roma (e siamo negli anni 61-63 d.C.) oppure a Cesarea in Israele (e siamo negli anni 58-60 d.C.). I Filippesi gli sono molto affezionati e, a più riprese, hanno mandato a Paolo aiuti e soccorsi. Nella lettera si sentono una profonda reciproca fiducia e simpatia per la piccola comunità. Il capitolo 2 è particolarmente importante nella teologia poiché nei versetti 2,6-2,11 si trova, in sintesi, il testo fondamentale sulla Incarnazione e la salvezza di Gesù nel mondo:. “Pur essendo Dio, svuotò se stesso prendendo la natura di schiavo”. Eppure questo brano che, per alcuni secoli (dal III al VI secolo d.C, in particolare), è il centro delle discussioni su Gesù e rimane ancora oggi un testo classico di teologia, è tuttavia da Paolo utilizzato solo come uno splendido esempio di sottomissione e di povertà di Gesù che va imitato. L’esempio del Salvatore deve essere parametro e stile di una comunità cristiana: come Gesù non cerca né la gloria, né la potenza, né la grandezza ma: “pur essendo Dio, svuotò se stesso prendendo la natura di schiavo”. Infatti i cinque versetti (vv6-11) continuano ed esemplificano il significato dei sentimenti di Gesù che si possono sintetizzare nell’umiltà, nella povertà e nell’ubbidienza: Gesù si è impoverito per amare e salvare il mondo. È un testo splendido, probabilmente un inno della Comunità cristiana, in cui viene riassunta, teologicamente, tutta la vicenda di Gesù “prima, durante la sua vita, dopo la risurrezione”.
Con il testo di oggi, che è il seguito, Paolo riprende le raccomandazioni ai cristiani di Filippi: il loro compito è quello di dedicarsi alla “Salvezza con rispetto e timore”. La salvezza viene da Dio e quindi va cercata con attenzione e responsabilità perché, facilmente, può essere perduta se non ci si accorda continuamente con il Signore. Con questa attenzione va tradotta in un clima di consapevolezza e in criteri di accoglienza, evitando “mormorazioni ed esitazioni” che fanno memoria del popolo d’Israele che, nel deserto, rifiuta di seguire con fiducia il Signore. Paolo esprime anche una preoccupazione coraggiosa: non si tratta tanto o solo di salvarsi l’anima ma di costituire delle comunità coerenti, vive, di persone irreprensibili, anche in un mondo malvagio e perverso. Paolo non incoraggia ad un atteggiamento di fuga, ma a restare. Lo ha mostrato lui stesso con il suo stile di missionario, impegnato a rimanere nel mondo, ad incoraggiare e a svelare il volto di Dio per trovare speranza. Così, nel contesto cittadino di quel tempo come nel nostro contesto, il Signore ci chiede di “splendere come astri nel mondo, tenendo salda la parola di vita”. Ritorna sempre la prospettiva di una evangelizzazione che passa attraverso la testimonianza. Essa è molto di più dell’operosità, a cui noi siamo spesso richiamati e portati. L’operosità è attenzione alle persone. Ma deve e può diventare cristiana quando si esprime nella gratuita disponibilità verso l’altro, nell’impegno del operare al meglio, con amore, con responsabilità e competenza.
In fondo la testimonianza si gioca, certo, su ciò che si fa’, ma cristianamente si gioca sul “come” si opera, attenti all’altro, alla sua dignità, e preoccupati di un nostro rispetto all’altro e di una nostra competenza a suo servizio, senza la pretesa di essere ringraziati. È il problema di una esemplarità di piccole comunità all’interno di realtà urbane. E tale esempio procurerà luminosità, stile e scelte di vita. In questo orizzonte non va dimenticata l’espressione “Vangelo come parola di vita”. Il Vangelo viene richiamato non tanto come cultura teologica, ma come Parola di Dio, creatrice sia del nostro piccolo mondo e sia creatrice nel mondo in cui operiamo. Don Raffaello Ciccone e di Teresa Ciccolini
QUINTA DOMENICA DI PASQUA anno A – COMMENTO ALLE LETTURE
14/5/2017
QUINTA DOMENICA DI PASQUA anno A
COMMENTO ALLE LETTURE Di Don Raffaello Ciccone e di Teresa Ciccolini
Giovanni. 14, 21-24
Continua Gesù a preoccuparsi che i suoi discepoli abbiano capito che cosa vuol dire averLo come Vivente in mezzo a loro e come debbano continuare a renderlo conosciuto e presente a tutti. E’ questa la rivoluzione pasquale. E ancora oggi ci sentiamo parlare di ‘novità’, di quei ‘comandamenti’ di cui ha fatto cenno diverse volte e che anche noi abbiamo ascoltato infinite volte, senza che cambiasse qualcosa di effettivo in noi.
“Se mi amate“, “chi mi ama“, “se uno mi ama“; ma certo, Signore che ti amiamo, almeno vorremmo amarti davvero; ma tu ci dici le solite cose: osservare la tua parola, ricondurla al Padre, faremo dimora in lui…….
E’ vero, Signore, quante volte abbiamo sentito e sentiamo queste parole, ma le lasciamo scivolare nel nostro cuore come se fossero scontate, come se ormai sapessimo già che cosa vogliono dire. E’ invece proprio sull’esperienza dell’amore che noi continuiamo a balbettare, a sorvolare, perché l’amore vero spaventa: è totale.
Qui Gesù ci sta chiedendo di rimetterci completamente a Lui, di uscire da noi stessi, o meglio di rientrarvi, ma così a fondo, da renderci conto di essere “una cosa sola” con Lui.
Ma davvero siamo convinti di essere “una cosa sola” con il Signore? Che non c’è paradossalmente più bisogno di ascoltare la sua parola, perché siamo un tutt’uno?
Gesù continua a chiederci di amarlo e che questo vuol dire rintracciare la sua presenza e la sua parola in tutti coloro che incontriamo e incrociamo.
Senza tante domande e tergiversazioni, ma come ha fatto Lui: prendendosi effettivamente a cuore le persone. Proviamo a domandarci nel sottovoce della nostra coscienza: chi si prende a cuore dei Siriani, dei profughi, delle donne violentate, dei crocifissi delle guerre di religione, delle stragi? Oppure: li sentiamo presenti nelle nostre asettiche, ma ambrosianissime, celebrazioni?
Prendersi a cuore vuol dire che, anche se non posso intervenire che con qualche breve offerta, queste persone fanno parte della mia vita, e, in qualche modo, dovrò risponderne anch’io.
Don Raffaello Ciccone e di Teresa Ciccolini
Atti degli Apostoli. 10, 1-5. 24. 34-36. 44-
La conversione di Cornelio, un centurione che coltiva un profondo rispetto per la religione d’Israele, come l’altro centurione di Cafarnao, ricordato da Luca (Lc7,1-10), è un avvenimento fondamentale dopo la risurrezione per la Comunità cristiana. Essa sta orientandosi sulle scelte di Gesù che vengono via via proposte attraverso segni, visioni, avvenimenti e, addirittura, nelle diverse discese dello Spirito.
La Comunità di Gerusalemme è rimasta molto legata all’ebraismo per cui i pagani, comunque, sono considerati lontani dall’accoglienza di Dio poiché non fanno parte del suo popolo. Per farne parte, ricordano che non sia sufficiente essere giusti, dare elemosine e pregare. E’ necessaria la circoncisione che li costituisce popolo come un popolo santo. Così pensano tutti e così Pietro si comporta. D’altra parte, anche Gesù non ha mai inserito, tra i suoi discepoli, dei pagani, né ha predicato loro.
Perciò questo episodio, di incontro di Pietro con Cornelio, ha una grande rilevanza negli Atti degli Apostoli come racconto di una svolta fondamentale, operata nel nome di Gesù. E viene riportato in due capitoli successivi: nel cap.10 si rammentano, con molti particolari, la vicenda così come è avvenuta, e nel cap. 11 è Pietro stesso che riferisce alla comunità di Gerusalemme i fatti, palesemente, per garantire e motivare questa sua esperienza missionaria.
Tutto si svolge in modo imprevedibile. Pietro è invitato, in modo sorprendente, da uno sconosciuto che gli chiede di andare in un paese lontano molti chilometri presso un centurione. Quando arriva, trova molte persone che lo aspettano, tutte estranee al mondo ebraico. Mentre entra in casa, Cornelio, il centurione, gli si getta ai piedi per rendergli omaggio (v 25) e Pietro lo rialza dicendogli: “Alzati poiché anch’io sono un uomo” (v 26). Pietro, dai segni ricevuti e dell’accoglienza, si rende conto che qui vanno riconosciute uguale umanità e parità; e lo esprime subito con le parole: “Mi sto rendendo conto che Dio non fa preferenza di persone”. Pietro manifesta la sorpresa e l’inizio di una consapevolezza: nella Chiesa si dovrà continuamente essere richiamati a infinite novità: Dio parlerà non solo attraverso ciò che ha detto Gesù, ma si svelerà anche attraverso segni, situazioni, contesti e culture diverse, cioè attraverso la storia del mondo, filtrati sempre dallo stile e dall’amore di Gesù. Il Concilio ce lo ha ripetuto più volte.
Dopo il parlare di Pietro che, ovviamente, svela il volto di Gesù e quindi suggerisce la fede in Lui, avviene un fatto straordinario: l’effusione del dono dello Spirito Santo. Ed è particolare questa presenza dello Spirito in persone che sono ancora pagane e che tuttavia si aprono a Gesù nella fede.
Lo stupore degli ebrei, che accompagnano Pietro, si accresce quando debbono constatare che è avvenuto lo stesso dono dello Spirito come nella Pentecoste a Gerusalemme. E questi pagani non sono ancora battezzati. Lo farà allora Pietro dicendo: «Chi può impedire che siano battezzati nell’acqua questi che hanno ricevuto, come noi, lo Spirito Santo?» (v 47). L’esperienza dello Spirito apre immediatamente al dono delle lingue: il Signore, infatti, spinge coloro che credono in Lui a portare nel mondo la novità di Dio nella fede in Gesù che si è manifestato e in cui credono.
Vale per tutti: siano essi pagani che si convertono senza passare attraverso l’iniziazione ebraica della circoncisione e siano cristiani di Gerusalemme. Tutti sentono che, per essere seguaci di Gesù nel mondo, non debbono solo credere in Lui e dare elemosine ma, più profondamente, diffondere in tutti la fede di Gesù che è speranza e dono per ogni persona nel mondo.
Filippesi. 2, 12-16
La lettera ai Filippesi è tradizionalmente legata alle lettere della prigionia di Paolo: lo si pensi prigioniero a Roma (e siamo negli anni 61-63 d.C.) oppure a Cesarea in Israele (e siamo negli anni 58-60 d.C.). I Filippesi gli sono molto affezionati e, a più riprese, hanno mandato a Paolo aiuti e soccorsi. Nella lettera si sentono una profonda reciproca fiducia e simpatia per la piccola comunità. Il capitolo 2 è particolarmente importante nella teologia poiché nei versetti 2,6-2,11 si trova, in sintesi, il testo fondamentale sulla Incarnazione e la salvezza di Gesù nel mondo:. “Pur essendo Dio, svuotò se stesso prendendo la natura di schiavo”. Eppure questo brano che, per alcuni secoli (dal III al VI secolo d.C, in particolare), è il centro delle discussioni su Gesù e rimane ancora oggi un testo classico di teologia, è tuttavia da Paolo utilizzato solo come uno splendido esempio di sottomissione e di povertà di Gesù che va imitato. L’esempio del Salvatore deve essere parametro e stile di una comunità cristiana: come Gesù non cerca né la gloria, né la potenza, né la grandezza ma: “pur essendo Dio, svuotò se stesso prendendo la natura di schiavo”. Infatti i cinque versetti (vv6-11) continuano ed esemplificano il significato dei sentimenti di Gesù che si possono sintetizzare nell’umiltà, nella povertà e nell’ubbidienza: Gesù si è impoverito per amare e salvare il mondo. È un testo splendido, probabilmente un inno della Comunità cristiana, in cui viene riassunta, teologicamente, tutta la vicenda di Gesù “prima, durante la sua vita, dopo la risurrezione”.
Con il testo di oggi, che è il seguito, Paolo riprende le raccomandazioni ai cristiani di Filippi: il loro compito è quello di dedicarsi alla “Salvezza con rispetto e timore”. La salvezza viene da Dio e quindi va cercata con attenzione e responsabilità perché, facilmente, può essere perduta se non ci si accorda continuamente con il Signore. Con questa attenzione va tradotta in un clima di consapevolezza e in criteri di accoglienza, evitando “mormorazioni ed esitazioni” che fanno memoria del popolo d’Israele che, nel deserto, rifiuta di seguire con fiducia il Signore. Paolo esprime anche una preoccupazione coraggiosa: non si tratta tanto o solo di salvarsi l’anima ma di costituire delle comunità coerenti, vive, di persone irreprensibili, anche in un mondo malvagio e perverso. Paolo non incoraggia ad un atteggiamento di fuga, ma a restare. Lo ha mostrato lui stesso con il suo stile di missionario, impegnato a rimanere nel mondo, ad incoraggiare e a svelare il volto di Dio per trovare speranza. Così, nel contesto cittadino di quel tempo come nel nostro contesto, il Signore ci chiede di “splendere come astri nel mondo, tenendo salda la parola di vita”. Ritorna sempre la prospettiva di una evangelizzazione che passa attraverso la testimonianza. Essa è molto di più dell’operosità, a cui noi siamo spesso richiamati e portati. L’operosità è attenzione alle persone. Ma deve e può diventare cristiana quando si esprime nella gratuita disponibilità verso l’altro, nell’impegno del operare al meglio, con amore, con responsabilità e competenza.
In fondo la testimonianza si gioca, certo, su ciò che si fa’, ma cristianamente si gioca sul “come” si opera, attenti all’altro, alla sua dignità, e preoccupati di un nostro rispetto all’altro e di una nostra competenza a suo servizio, senza la pretesa di essere ringraziati. È il problema di una esemplarità di piccole comunità all’interno di realtà urbane. E tale esempio procurerà luminosità, stile e scelte di vita. In questo orizzonte non va dimenticata l’espressione “Vangelo come parola di vita”. Il Vangelo viene richiamato non tanto come cultura teologica, ma come Parola di Dio, creatrice sia del nostro piccolo mondo e sia creatrice nel mondo in cui operiamo.
Don Raffaello Ciccone e di Teresa Ciccolini
Tratto dal sito QUMRAN