COMMENTO ALLE LETTURE Is 16, 1-51 -Ts 3, 11 – 4, 2 -Mc 11, 1-11
DON ANGELO CASATI – P.ALBERTO MAGGI osm
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DON ANGELO CASATI
C’è una modalità nella venuta. Una modalità. Se volete uno stile. Che ci fa sperare in una venuta. Anche nella venuta di Gesù, che oggi non è certo nella mangiatoia, ma in noi. Spero di non essere dissacrante , ma oso dire che non ci basta che Dio venga, per farci respirare, finalmente respirare, per farci sussultare il cuore. Oserei dire che dipende da come viene Dio. Da come viene Gesù. Non tutte le venute sono motivo di serenità, di consolazione, di pace. Dipende da “con che piglio” uno arriva, come sono i suoi occhi, come sono le sue mani, quali sono i suoi pensieri.
E il brano di Matteo di oggi sembra ricordare come viene Gesù. Per capirlo basterebbe pensare gli inizi della sua vita, la mangiatoia o la fine della sua vita, questo suo ingresso nella città in una settimana che fu per lui decisiva. E tutto sembra scritto in questo racconto.
La liturgia ha scovato un testo di Isaia, di non facile lettura dal punto di vista storiografico, quasi a commento della pagina del vangelo. Ecco due versetti:
“Quando sarà estinto il tiranno
e finita la devastazione, scomparso il distruttore della regione,
allora sarà stabilito un trono sulla mansuetudine,
vi siederà con tutta fedeltà, nella tenda di Davide,
un giudice sollecito del diritto e pronto alla giustizia”.
Un trono – quando mai? – sulla mansuetudine? “Portarono il puledro da Gesù, vi gettarono sopra i loro mantelli ed egli vi salì sopra”. Lo vediamo entrare, quel puledro è un trono, ma un trono alla mansuetudine. Oggi siamo noi ad osservare, quella piccola folla ci rappresenta. Osserviamo i suoi occhi, osserviamo le sue mani, osserviamo come sta su quel puledro. Ci sembra di capire. Non vogliamo essere presuntuosi, ma ci sembra in parte di capire. E’ il regno della mansuetudine.
E tutto respira nel brano mansuetudine, è la festa dei piccoli e delle piccole cose, per far festa basta l’entusiasmo dei piccoli, bastano i pochi rami tagliati dagli alberi, bastano pochi mantelli stesi per la strada, basta la schiena di un puledro. Tutto respira semplicità. Come siamo lontani dalle parate, dagli urli che incutono terrore, dalle folle organizzate, gestite e pilotate dal potere.
Al potere è andata la mansuetudine, l’umiltà, la mitezza.
Umiltà, mitezza, due parole, due modalità di essere e di vivere, che oggi sembrano in esilio. Trovano rifugio in qualche rara eccezione. Qui alla venuta di Gesù si è tutti uguali, nessuno chiede conto di chi tu sei né ti chiedono che titolo hai o quanti soldi hai, a quale gruppo appartieni, se sei santo o se sei peccatore o. Tutti a fare festa per le strade, tutti a fa festa insieme, per la gioia di uno venuto nel nome del Signore. Venuto per un progetto che ha la firma di Dio. Un progetto di trasformazione che riguarda anche la nostra terra e sembra quasi prefigurato dalla strada in cui sono presenti tutti, dove la festa è condivisa fra tutti.
Come fa impressione la distanza, tra quella strada invasa dalla spontaneità, presa dall’entusiasmo, e il tempio dove Gesù entra la sera di quello stesso giorno. E’ scritto: “E dopo aver guardato ogni cosa attorno, essendo ormai l’ora tarda, Gesù uscì con i Dodici verso Betania”. Non una voce, non un viso, solo cose da guardare, un religione ridotta a cose, il gelo del vuoto. Gesù andrà in cerca di calore in una casa nella notte, nella casa dei suoi amici, a Betania.
Quale distanza! Dipende da chi o da che cosa abbiamo negli occhi. La liturgia dell’avvento vorrebbe orientare gi occhi a questa promettente modalità del vivere, quella del Signore Gesù, una modalità che costruisce spazi di serenità in noi, nelle nostre relazioni, nelle nostre città, nelle nostre chiese, una modalità promettente, lontana da quella distruttiva. Che va invece decisamente, fortemente allontanata, mandata in esilio. Come si augurava il profeta: “Quando sarà estinto il tiranno, e finita la devastazione, scomparso il distruttore della regione, allora sarà stabilito un trono sulla mansuetudine”. Via l’arroganza, via l’urlo, via la corruzione, via la prepotenza, via il massacro. La mansuetudine al potere. Riprenderemo a far festa. A far festa per Gesù. Che viene mite e umile. Un dominatore, poveretti come siamo, non lo avremmo retto. Ci avrebbe schiacciati.
Nel sogno è riprendere a fa festa anche per le strade, perché la mansuetudine regge, come il puledro regge. Regge la terra, libera l’invenzione, la capacità di pensare, l’entusiasmo di costruire. Non schiaccia, ma libera, libera energia, energie di vita.
C’è un modello da trasmettere. Paolo può dire ai cristiani di Tessalonica: “Avete imparato da noi il modo di comportarvi e di piacere a Dio – e così già vi comportate – possiate progredire ancora di più. Voi conoscete quale regola di vita vi abbiamo dato da parte del Signore Gesù”
C’è una regola: è lui, Gesù, la regola. Che cosa dobbiamo imparare da lui? Mi sono venute in soccorso parole del vangelo di Matteo, al capitolo 11, dove Gesù dice: “Imparate da me…”. Come possiamo imparare se non guardando? Per imparare da lui occorre guardarlo. Guardiamo spesso a lui? Lo seguiamo con gli occhi nel vangelo? E aggiunge: “Imparate da me che sono mite e umile di cuore. Non ci dà un prontuario da seguire, anche perché le situazioni della vita evolvono. La regola sì, la regola è lui con la sua mitezza e umiltà: “ Imparate da me che sono mite e umile di cuore”. Io sono un mite? Io sono un umile? Mite e umile di cuore? Noi lo siamo?
Non dovremmo augurare a noi stessi e augurare a questa nostra stagione una crescita – ci sono tante crescite che ci auguriamo – dico, una crescita in mitezza e umiltà? Sarebbe terapeutica. Uno stile aggressivo, presuntuoso, arrogante sta tristemente seminando devastazioni, nei rapporti personali, nella società, nella stessa natura. Facciamo nostra la regola, la regola che è Gesù, regola della mitezza, dell’umiltà, la regola del rispetto. Crescerà la festa, anche per le nostre strade.
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ALBERTO MAGGI osm
questo brano di Mc 11, 1-11 fa sorgere spontaneo ’interrogativo: come è stato possibile che la folla che ha accolto osannante Gesù al suo ingresso a Gerusalemme sia la stessa che poi griderà “Crocifiggi”?
Il perché ce lo dice Marco nei primi undici versetti del capitolo 11 del suo vangelo, che riguardano l’ingresso di Gesù a Gerusalemme. Gesù e i suoi discepoli sono vicini a Gerusalemme verso il monte degli Ulivi, e Gesù mandò due dei suoi discepoli nel villaggio di fronte. Il termine “villaggio” è un termine tecnico che nei vangeli indica sempre incomprensione o opposizione alla novità portata da Gesù.
Perché il villaggio è il luogo della tradizione. E’ il luogo attaccato ai valori tradizionali del passato. E quindi quando appare nei vangeli il termine “villaggio” è una chiave di lettura che l’evangelista ci da per farci comprendere la sua narrazione e indica sempre incomprensione o opposizione a quello che Gesù farà, come vedremo in questo brano.
“«Entrando in esso troverete un …»”- non è puledro, ma asinello, ed è importante l’esatta traduzione di questo termine – “«… legato»”. Il riferimento dell’evangelista è al profeta Zaccaria, al capitolo 9, versetto 9, una profezia nella quale il profeta indicava “ecco a te viene il tuo Re”, a Gerusalemme, “egli è giusto e vittorioso, umile, cavalca un asino, un puledro figlio d’asina”. E’ l’immagine di un messia diverso da quello atteso dalla tradizione.
Dobbiamo tenere presente che la cavalcatura regale era la mula. L’asino era la cavalcatura dei servi. Quindi un messia, un re, completamente diverso da quello atteso. Ebbene questo messia, dice Zaccaria, “è quello che farà sparire il carro da guerra e annuncerà la pace alle nazioni”. Quindi non un messia di violenza, un messia di potere, un messia di forza, ma un messia di pace. Questa profezia era stata come ignorata e censurata. Nella selezione dei testi rabbini e scribi avevano scelto soltanto quei brani che indicavano un potere, una forza, un dominio, una supremazia di Israele sopra tutte le altre nazioni.
Ebbene Gesù dice “«Slegatelo e portatelo qui»”, cioè slegate questa profezia. I discepoli devono constatare che la figura di messia proposta da Gesù corrisponde ai dati della scrittura. “«E se qualcuno vi dirà: ‘Perché fate questo?’, rispondete …»”, non è “il Signore ne ha bisogno, ma “«…il suo padrone ne ha bisogno»”. L’asinello appartiene a Gesù perché sarà lui che realizzerà questa profezia. Lo slegano e lo portano a Gesù.
Portarono l’asinello a Gesù, “vi gettarono sopra i loro mantelli”, quindi i discepoli danno adesione a Gesù come re e messia di pace, di servizio.
“Ed egli vi …”, non è salì sopra, ma vi sedette sopra. Gesù vi si installa. Come poi lui sarà presentato seduto alla destra di Dio, qui seduto sopra questo asinello, significa che questa profezia di un messia di pace, di un messia di servizio, gli è propria. “Molti stendevano i propri mantelli sulla strada”. Altri invece fanno il gesto che era tipico di sottomissione al re (stendere le fronde dei campi). Quindi c’è un’incomprensione sul gesto di Gesù.
E infatti, scrive l’evangelista, che Gesù si trova in mezzo a due fuochi. Lui che era stato presentato al capitolo 10, versetto 32, all’inizio di questo cammino verso Gerusalemme, come colui che precedeva i suoi discepoli, adesso non è più Gesù ad indicare il cammino. L’evangelista scrive “Quelli che precedevano”, sono altri che indicano il cammino, che vogliono che Gesù realizzi i loro desideri. “Quelli che lo seguivano, gridavano”.
Il verbo gridare è stato adoperato dall’evangelista sia per gli spiriti impuri che per il cieco di Gerico che hanno quest’immagine del messia della tradizione, del messia figlio di Davide. Infatti cos’è che gridano? “«Osanna!»”, espressione ebraica che significa “dai, salvaci” e il salmo 118 che veniva cantato per celebrare i generali vittoriosi, “osanna, salvaci”.
“«Benedetto il regno che viene»”, ecco l’equivoco. Questo regno non è in alcun modo il regno di Dio proposto da Gesù, ma l’evangelista scrive “«del nostro padre Davide»”. Mentre Gesù ha parlato del vostro padre del cielo, loro attendono il regno del “nostro padre Davide”. Cosa significa il regno di Davide? Il regno di un dominatore che cambia tutto con la forza e che schiaccia ogni resistenza. Quindi un regno che si impone con la forza, con la violenza.
Gesù invece è venuto ad annunziare il regno di Dio. Un regno che, per la sua realizzazione, esige il cambiamento interiore e profondo dell’intimo delle persone. Un cambio di valori: non vivere più per sé, ma per gli altri. Quindi il regno di Dio esige la conversione, l’altro esige la forza. Ecco perché poi continuano
chiedendo: “«Osanna»”, cioè salvaci, “«nel più alto dei cieli!»” Cioè chiedono l’appoggio di Dio per realizzare questo progetto.
Appena la folla si accorgerà che Gesù non è il messia di forza, il messia di potere, che lui non è venuto a restaurare il defunto regno del re Davide, ma ad inaugurare il regno di Dio, questo messia sarà inutile.
Ecco perché la stessa folla che lo ha acclamato con “Osanna”, sarà quella che poi griderà “Crocifiggi!”
IV DOMENICA DI AVVENTO – L’ingresso del Messia
03/12/2017
IV DOMENICA DI AVVENTO – L’ingresso del Messia
COMMENTO ALLE LETTURE Is 16, 1-51 -Ts 3, 11 – 4, 2 -Mc 11, 1-11
DON ANGELO CASATI – P.ALBERTO MAGGI osm
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DON ANGELO CASATI
C’è una modalità nella venuta. Una modalità. Se volete uno stile. Che ci fa sperare in una venuta. Anche nella venuta di Gesù, che oggi non è certo nella mangiatoia, ma in noi. Spero di non essere dissacrante , ma oso dire che non ci basta che Dio venga, per farci respirare, finalmente respirare, per farci sussultare il cuore. Oserei dire che dipende da come viene Dio. Da come viene Gesù. Non tutte le venute sono motivo di serenità, di consolazione, di pace. Dipende da “con che piglio” uno arriva, come sono i suoi occhi, come sono le sue mani, quali sono i suoi pensieri.
E il brano di Matteo di oggi sembra ricordare come viene Gesù. Per capirlo basterebbe pensare gli inizi della sua vita, la mangiatoia o la fine della sua vita, questo suo ingresso nella città in una settimana che fu per lui decisiva. E tutto sembra scritto in questo racconto.
La liturgia ha scovato un testo di Isaia, di non facile lettura dal punto di vista storiografico, quasi a commento della pagina del vangelo. Ecco due versetti:
“Quando sarà estinto il tiranno
e finita la devastazione, scomparso il distruttore della regione,
allora sarà stabilito un trono sulla mansuetudine,
vi siederà con tutta fedeltà, nella tenda di Davide,
un giudice sollecito del diritto e pronto alla giustizia”.
Un trono – quando mai? – sulla mansuetudine? “Portarono il puledro da Gesù, vi gettarono sopra i loro mantelli ed egli vi salì sopra”. Lo vediamo entrare, quel puledro è un trono, ma un trono alla mansuetudine. Oggi siamo noi ad osservare, quella piccola folla ci rappresenta. Osserviamo i suoi occhi, osserviamo le sue mani, osserviamo come sta su quel puledro. Ci sembra di capire. Non vogliamo essere presuntuosi, ma ci sembra in parte di capire. E’ il regno della mansuetudine.
E tutto respira nel brano mansuetudine, è la festa dei piccoli e delle piccole cose, per far festa basta l’entusiasmo dei piccoli, bastano i pochi rami tagliati dagli alberi, bastano pochi mantelli stesi per la strada, basta la schiena di un puledro. Tutto respira semplicità. Come siamo lontani dalle parate, dagli urli che incutono terrore, dalle folle organizzate, gestite e pilotate dal potere.
Al potere è andata la mansuetudine, l’umiltà, la mitezza.
Umiltà, mitezza, due parole, due modalità di essere e di vivere, che oggi sembrano in esilio. Trovano rifugio in qualche rara eccezione. Qui alla venuta di Gesù si è tutti uguali, nessuno chiede conto di chi tu sei né ti chiedono che titolo hai o quanti soldi hai, a quale gruppo appartieni, se sei santo o se sei peccatore o. Tutti a fare festa per le strade, tutti a fa festa insieme, per la gioia di uno venuto nel nome del Signore. Venuto per un progetto che ha la firma di Dio. Un progetto di trasformazione che riguarda anche la nostra terra e sembra quasi prefigurato dalla strada in cui sono presenti tutti, dove la festa è condivisa fra tutti.
Come fa impressione la distanza, tra quella strada invasa dalla spontaneità, presa dall’entusiasmo, e il tempio dove Gesù entra la sera di quello stesso giorno. E’ scritto: “E dopo aver guardato ogni cosa attorno, essendo ormai l’ora tarda, Gesù uscì con i Dodici verso Betania”. Non una voce, non un viso, solo cose da guardare, un religione ridotta a cose, il gelo del vuoto. Gesù andrà in cerca di calore in una casa nella notte, nella casa dei suoi amici, a Betania.
Quale distanza! Dipende da chi o da che cosa abbiamo negli occhi. La liturgia dell’avvento vorrebbe orientare gi occhi a questa promettente modalità del vivere, quella del Signore Gesù, una modalità che costruisce spazi di serenità in noi, nelle nostre relazioni, nelle nostre città, nelle nostre chiese, una modalità promettente, lontana da quella distruttiva. Che va invece decisamente, fortemente allontanata, mandata in esilio. Come si augurava il profeta: “Quando sarà estinto il tiranno, e finita la devastazione, scomparso il distruttore della regione, allora sarà stabilito un trono sulla mansuetudine”. Via l’arroganza, via l’urlo, via la corruzione, via la prepotenza, via il massacro. La mansuetudine al potere. Riprenderemo a far festa. A far festa per Gesù. Che viene mite e umile. Un dominatore, poveretti come siamo, non lo avremmo retto. Ci avrebbe schiacciati.
Nel sogno è riprendere a fa festa anche per le strade, perché la mansuetudine regge, come il puledro regge. Regge la terra, libera l’invenzione, la capacità di pensare, l’entusiasmo di costruire. Non schiaccia, ma libera, libera energia, energie di vita.
C’è un modello da trasmettere. Paolo può dire ai cristiani di Tessalonica: “Avete imparato da noi il modo di comportarvi e di piacere a Dio – e così già vi comportate – possiate progredire ancora di più. Voi conoscete quale regola di vita vi abbiamo dato da parte del Signore Gesù”
C’è una regola: è lui, Gesù, la regola. Che cosa dobbiamo imparare da lui? Mi sono venute in soccorso parole del vangelo di Matteo, al capitolo 11, dove Gesù dice: “Imparate da me…”. Come possiamo imparare se non guardando? Per imparare da lui occorre guardarlo. Guardiamo spesso a lui? Lo seguiamo con gli occhi nel vangelo? E aggiunge: “Imparate da me che sono mite e umile di cuore. Non ci dà un prontuario da seguire, anche perché le situazioni della vita evolvono. La regola sì, la regola è lui con la sua mitezza e umiltà: “ Imparate da me che sono mite e umile di cuore”. Io sono un mite? Io sono un umile? Mite e umile di cuore? Noi lo siamo?
Non dovremmo augurare a noi stessi e augurare a questa nostra stagione una crescita – ci sono tante crescite che ci auguriamo – dico, una crescita in mitezza e umiltà? Sarebbe terapeutica. Uno stile aggressivo, presuntuoso, arrogante sta tristemente seminando devastazioni, nei rapporti personali, nella società, nella stessa natura. Facciamo nostra la regola, la regola che è Gesù, regola della mitezza, dell’umiltà, la regola del rispetto. Crescerà la festa, anche per le nostre strade.
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ALBERTO MAGGI osm
questo brano di Mc 11, 1-11 fa sorgere spontaneo ’interrogativo: come è stato possibile che la folla che ha accolto osannante Gesù al suo ingresso a Gerusalemme sia la stessa che poi griderà “Crocifiggi”?
Il perché ce lo dice Marco nei primi undici versetti del capitolo 11 del suo vangelo, che riguardano l’ingresso di Gesù a Gerusalemme. Gesù e i suoi discepoli sono vicini a Gerusalemme verso il monte degli Ulivi, e Gesù mandò due dei suoi discepoli nel villaggio di fronte. Il termine “villaggio” è un termine tecnico che nei vangeli indica sempre incomprensione o opposizione alla novità portata da Gesù.
Perché il villaggio è il luogo della tradizione. E’ il luogo attaccato ai valori tradizionali del passato. E quindi quando appare nei vangeli il termine “villaggio” è una chiave di lettura che l’evangelista ci da per farci comprendere la sua narrazione e indica sempre incomprensione o opposizione a quello che Gesù farà, come vedremo in questo brano.
“«Entrando in esso troverete un …»”- non è puledro, ma asinello, ed è importante l’esatta traduzione di questo termine – “«… legato»”. Il riferimento dell’evangelista è al profeta Zaccaria, al capitolo 9, versetto 9, una profezia nella quale il profeta indicava “ecco a te viene il tuo Re”, a Gerusalemme, “egli è giusto e vittorioso, umile, cavalca un asino, un puledro figlio d’asina”. E’ l’immagine di un messia diverso da quello atteso dalla tradizione.
Dobbiamo tenere presente che la cavalcatura regale era la mula. L’asino era la cavalcatura dei servi. Quindi un messia, un re, completamente diverso da quello atteso. Ebbene questo messia, dice Zaccaria, “è quello che farà sparire il carro da guerra e annuncerà la pace alle nazioni”. Quindi non un messia di violenza, un messia di potere, un messia di forza, ma un messia di pace. Questa profezia era stata come ignorata e censurata. Nella selezione dei testi rabbini e scribi avevano scelto soltanto quei brani che indicavano un potere, una forza, un dominio, una supremazia di Israele sopra tutte le altre nazioni.
Ebbene Gesù dice “«Slegatelo e portatelo qui»”, cioè slegate questa profezia. I discepoli devono constatare che la figura di messia proposta da Gesù corrisponde ai dati della scrittura. “«E se qualcuno vi dirà: ‘Perché fate questo?’, rispondete …»”, non è “il Signore ne ha bisogno, ma “«…il suo padrone ne ha bisogno»”. L’asinello appartiene a Gesù perché sarà lui che realizzerà questa profezia. Lo slegano e lo portano a Gesù.
Portarono l’asinello a Gesù, “vi gettarono sopra i loro mantelli”, quindi i discepoli danno adesione a Gesù come re e messia di pace, di servizio.
“Ed egli vi …”, non è salì sopra, ma vi sedette sopra. Gesù vi si installa. Come poi lui sarà presentato seduto alla destra di Dio, qui seduto sopra questo asinello, significa che questa profezia di un messia di pace, di un messia di servizio, gli è propria. “Molti stendevano i propri mantelli sulla strada”. Altri invece fanno il gesto che era tipico di sottomissione al re (stendere le fronde dei campi). Quindi c’è un’incomprensione sul gesto di Gesù.
E infatti, scrive l’evangelista, che Gesù si trova in mezzo a due fuochi. Lui che era stato presentato al capitolo 10, versetto 32, all’inizio di questo cammino verso Gerusalemme, come colui che precedeva i suoi discepoli, adesso non è più Gesù ad indicare il cammino. L’evangelista scrive “Quelli che precedevano”, sono altri che indicano il cammino, che vogliono che Gesù realizzi i loro desideri. “Quelli che lo seguivano, gridavano”.
Il verbo gridare è stato adoperato dall’evangelista sia per gli spiriti impuri che per il cieco di Gerico che hanno quest’immagine del messia della tradizione, del messia figlio di Davide. Infatti cos’è che gridano? “«Osanna!»”, espressione ebraica che significa “dai, salvaci” e il salmo 118 che veniva cantato per celebrare i generali vittoriosi, “osanna, salvaci”.
“«Benedetto il regno che viene»”, ecco l’equivoco. Questo regno non è in alcun modo il regno di Dio proposto da Gesù, ma l’evangelista scrive “«del nostro padre Davide»”. Mentre Gesù ha parlato del vostro padre del cielo, loro attendono il regno del “nostro padre Davide”. Cosa significa il regno di Davide? Il regno di un dominatore che cambia tutto con la forza e che schiaccia ogni resistenza. Quindi un regno che si impone con la forza, con la violenza.
Gesù invece è venuto ad annunziare il regno di Dio. Un regno che, per la sua realizzazione, esige il cambiamento interiore e profondo dell’intimo delle persone. Un cambio di valori: non vivere più per sé, ma per gli altri. Quindi il regno di Dio esige la conversione, l’altro esige la forza. Ecco perché poi continuano
chiedendo: “«Osanna»”, cioè salvaci, “«nel più alto dei cieli!»” Cioè chiedono l’appoggio di Dio per realizzare questo progetto.
Appena la folla si accorgerà che Gesù non è il messia di forza, il messia di potere, che lui non è venuto a restaurare il defunto regno del re Davide, ma ad inaugurare il regno di Dio, questo messia sarà inutile.
Ecco perché la stessa folla che lo ha acclamato con “Osanna”, sarà quella che poi griderà “Crocifiggi!”