19/11/2017
II DOMENICA DI AVVENTO – CONVERTITEVI: IL REGNO DEI CIELI E’ VICINO –
MATTEO 3,1-12
FARINELLA PAOLO – Note e riflessioni -www.paolofarinella.eu/ finestra Liturgia
ALBERTO MAGGI osm -Commento al Vangelo www.studibiblici.it
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FARINELLA PAOLO – Note e riflessioni
Tratte dal sito di FARINELLA PAOLO prete – www.paolofarinella.eu/ finestra Liturgia]
Il tempo di Avvento non è preparazione al Natale, ma disposizione interiore ad incontrare il Signore che verrà alla fine della Storia (escatologia) che per ciascuno di noi può giungere in qualsiasi momento. Scendiamo nel pozzo profondo del nostro cuore e lasciamoci esaminare dallo Spirito del Signore per «discernere» se siamo in cammino verso il Regno o se invece siamo fermi, circolando a zonzo attorno a noi stessi.
L’Eucaristia domenicale è lo spartiacque, la cerniera tra una settimana che si chiude per sempre e un’altra che comincia. In quanto Pasqua della settimana, la domenica diventa il punto di arrivo della nostra diaspora, ma anche il punto di partenza per una nuova missione nel cuore della vita che è dove viviamo la nostra storia. Sette giorni dopo l’inizio dell’Avvento, ci domandiamo: qual è stato lo spirito d’avvento che abbiamo vissuto? Abbiamo atteso qualcuno? Con quali sentimenti e con quale prospettiva? Abbiamo avuto coscienza che Dio stesso pur vivendo con noi per tutta la settimana ci ha atteso per questo appuntamento dove la sua paternità si esprime nella nostra fraternità e sororità?
Già per le strade, le piazze e le vie dello shopping, è cominciato lo scempio del Natale, il rito dell’obbligo, la liturgia delle falsità: si fa finta di fare sul serio perché bisogna rispondere alle aspettative che noi pensiamo che gli altri abbiano; bisogna fare regali, essere buoni a date scandite, stare insieme perché «è la tradizione» e magari chi sta insieme pensa di cavare gli occhi ai commensali. Dobbiamo farlo per i figli, per i genitori … e perdiamo un’occasione per essere veri e pensare al mistero della nostra «incarnazione» che esige la verità della nostra consistenza che si traduce nell’essere e nel fare ciò che veramente corrisponde alla nostra vita, alla nostra anima, al nostro bisogno di autenticità. Non si può vivere di finta. Cominciamo noi a smitizzare il Natale commerciale e a scegliere l’austerità come criterio di vita e partecipazione al dolore e alla miseria che affligge tre quarti dell’umanità lontano e vicino a noi. Dio «non giudicherà secondo le apparenze e non prenderà decisioni per sentito dire» (1a lettura: Is 11,3), ma in base all’accoglienza che avremo riservato agli altri in quanto immagine di Cristo che si fa «diàcono» ( Rm 15,8) d’Israele perché egli è la promessa fatta ai padri. Celebrare l’Eucaristia nel tempo di Avvento significa prendere coscienza che siamo «diaconi» della verità che è già dentro di noi, ma verso la quale corriamo perché è inesauribile e solo lo Spirito può contenerla.
Vangelo Mt 3,1–12. Giovanni il Battezzante è una figura centrale di tutto il NT: vi è nominato oltre 100 volte. Parlano di lui tutti e quattro i vangeli. I Sinottici (Mt, Mc e Lc) lo descrivono come il battistrada, il precursore di Cristo con caratteristiche comuni: vi è concordia sul nome, sul fatto che opera nel deserto di Giuda, i temi della sua predicazione sono la conversione fondata sulla confessione dei peccati, il lavacro nell’acqua del Giordano e infine la citazione di Isaia (40,3). L’evangelista Mt a queste caratteristiche comuni con gli altri due evangelisti, aggiunge il tema della vicinanza del regno (v. 2), lo stile di vita del profeta: vestito, cibo (v. 4) e la zona geografica. Giovanni riprende la predicazione profetica sotto la prospettiva della preparazione e dell’impegno a predisporre la strada in cui Dio dovrà passare. Gesù riprenderà da Giovanni la sua predicazione iniziale con l’invito alla conversione come atteggiamento permanente del credente (Mc 1,15; Lc 13,3-5). Dopo la risurrezione e lo stesso invito verrà fatto dagli apostoli e da Paolo (Lc 24,47; At 2,28; 26,20).
La «conversione» ovvero il capovolgimento della vita, diventa un cammino vocazionale dove ciascuno di noi, insieme come Chiesa viviamo la nostra missione profetica per vivere la vita qualitativamente più densa, più impegnata e vera. Nel vangelo (Mc 1,15) «conversione» traduce il termine greco «metànoia» che è composto dalla preposizione «metà – oltre» e «noûs – pensiero» per cui, in modo molto semplice possiamo dire che conversione significa capovolgimento del pensiero. Troppo spesso pensiamo che convertirsi riguardi il comportamento o cambiare atteggiamento. Non è così perché è simile a cambiare vestito. La conversione riguarda il pensiero, cioè le ragioni che fondano la vita e i criteri che usiamo per organizzarla: le modalità e gli stili di vita sono una conseguenza. La conversione pertanto non è il riconoscimento di Dio onnipotente, ma la scoperta di un Dio che ha dimenticato se stesso per permetterci di stare al suo fianco. Spesso identifichiamo la conversione con il rimorso o con il senso di colpa come se Dio dovesse stare lì a chiedere il conto senza sconti e misericordia. La conversione è un impegno totale sulla proposta di vita fatta da Dio in Gesù che diventa il nostro metro e la nostra misura. La prospettiva del Regno
Quanto cammino ancora da fare per liberarci dalla nostra religiosità pagana! Chi si converte ripone in Dio la fiducia della propria salvezza (Ger 17,5-11; 31,16-22; Is 2,6-22) e si fida e si affida a Dio, per cui il convertito è colui che fa l’affidamento della sua vita ed è certo di non essere né frainteso né deluso. Il segno di questo abbandono avviene nel simbolismo dell’acqua che materialmente accoglie, circonda e avvolge. Al tempo di Gesù erano diffuse molte forme purificatrici d’acqua come le abluzioni di purità dopo essere stati al mercato o in ambienti pagani, il battesimo come lavacro che si svolgeva a Qumràn, ecc. Tutto queste forme di lavacro avevano la caratteristica di essere auto-dati: ognuno purifica se stesso.
La seconda caratteristica era la ripetitività: si riceveva tutte le volte che ve ne era bisogno. Con il battesimo di penitenza di Giovanni inizia una nuova prospettiva: il battesimo è dato da «battista» cioè è un invito, un segno e un dono che si ricevono dalle mani di un altro, lo si riceve una sola volta che così diventa un impegno per tutta la vita. Qui nasce l’etica come conseguenza di una scelta di vita e non come premessa. Il comportamento segue sempre l’essere ed è un segnale che ci rivela la nostra consistenza e la nostra dimensione interiore. A differenza della religiosità del suo tempo, Giovanni invita ad entrare in un Regno qualitativo, frutto di una doppia convergenza: la conversione di Dio all’uomo e la conversione dell’uomo a Dio.
Nella celebrazione eucaristica noi viviamo questa doppia appartenenza: Dio ci appartiene per dono e noi gli apparteniamo per misericordia e per abbandono. In essa siamo radunati con i nostri bagagli, i nostri limiti e i nostri pregi; in essa confrontiamo tutto ciò con la Parola di Dio e infine sperimentiamo la comunione di vita nel Pane e nel Vino che impongono una conversione del cuore che ci rende liberi e veri.
Qui insieme sperimentiamo la conversione come abbondanza di amore che si mette a servizio: la conversione come «diaconìa» perché sperimentiamo la fragilità di Dio che pur di conquistarci alla sua intimità non esita a diventare pane frantumato e vino sparso: al nostro abbandono Dio risponde con il suo annientamento.
Come sono distanti il Dio e la severità di Giovanni Battista! Nell’Eucaristia noi gustiamo solo la tenerezza di Dio che ci fa la corte. Dio, ci obbliga a guardare in avanti, non a ripiegarci sul passato, sul quale tra l’altro non abbiamo alcun potere nemmeno di manomissione: il passato possiamo solo accettarlo e, in un contesto di conversione, offrirlo a Dio come un dono che ci appartiene.
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COMMENTO AL VANGELO DI P.ALBERTO MAGGI OSM
Mt 3,1-12
Nel brano che la liturgia ci presenta questa domenica ci sono tre termini che è importante esaminare perché se non si comprendono bene rischiano di avere nella vita del credente degli effetti diversi da quelli che l’evangelista voleva.
Il primo è l’annunzio di Giovanni Battista nel deserto ed è un imperativo, “Convertitevi!” Questo verbo ha il significato di un cambio di mentalità che poi comporta un cambio nel comportamento. Purtroppo, in passato, l’aver tradotto questo invito di Giovanni Battista, che Gesù poi farà anche suo, con “se non fate penitenza”, ha dato il via all’immagine di un cristianesimo fatto di penitenze, di sacrifici, di rinunce, di mortificazioni; tutte parole, tutti vocaboli, tutte immagini che sono assenti nel linguaggio di Gesù.
Mai Gesù nei vangeli ha invitato a fare penitenza. Mai Gesù nei vangeli ha invitato le persone a mortificarsi, mai Gesù nei vangeli ha invitato il popolo a fare sacrifici, ma anzi, il contrario!
Riprendendo l’espressione di Osea, “Imparate cosa significa ‘misericordia io voglio non sacrifici’”, Gesù non chiede sacrifici verso Dio, ma la misericordia verso gli uomini.
Quindi l’invito di Giovanni Battista, il suo imperativo, è “cambiate comportamento”, che si traduce con un orientamento diverso della propria esistenza, non pensare più a sé per pensare agli altri. Questa conversione permette la vicinanza del Regno dei Cieli. Anche qui in passato ci fu un po’ di confusione; si interpretò il Regno dei Cieli come un regno nei cieli.
Ma non è così. Regno dei Cieli è una forma che adopera solo Matteo e ha il significato di Regno di Dio. Ma perché Matteo adopera l’espressione “Regno dei Cieli”? Perché lui scrive per una comunità di giudei ed è attento a non urtare la loro sensibilità in quanto costoro non pronunziano né scrivono la parola “Dio”, ma adoperano al suo posto dei sostituti.
Esattamente come facciamo noi nella nostra lingua quando diciamo “grazie al cielo”, laddove si intende ringraziare Dio, la divinità. Allora il Regno dei Cieli non è un Regno nei cieli, non si tratta dell’aldilà, ma si tratta della realizzazione del progetto di Dio sull’umanità. Lui è il re che governa il suo popolo, lui è il padre che si prende cura dei suoi figli.
Questo è il Regno dei Cieli, quindi il Regno di Dio. Perché si dice che questo Regno di Dio è vicino e non c’è ancora? Perché questo Regno dei Cieli non scende dall’alto per un intervento divino, ma è condizionato dalla collaborazione degli uomini attraverso l’accettazione delle beatitudini proposte da Gesù. Infatti Gesù nella prima beatitudine proclamerà beati i poveri per lo Spirito, quelli che liberamente e volontariamente decidono di essere poveri, perché di questi E’ …
Non è una promessa per il futuro (sarà), ma E’ il Regno dei Cieli.
Nel momento esatto in cui ci sono degli individui che decidono di orientare la propria vita al bene e al benessere degli altri, in questo stesso istante la risposta di Dio è che lui, come padre, si prende cura di loro e dei loro bisogni.
Quindi abbiamo visto il termine “conversione”, un cambio di mentalità, il Regno di Dio, la realizzazione del progetto di Dio sull’umanità, e infine Giovanni proclama che lui battezza nell’acqua, cioè aiuta a cambiare vita, ma poi la forza per iniziare questa vita nuova non la può dare lui. La darà Gesù che viene qualificato come colui che battezza in Spirito Santo. Questo è talmente importante che in tutti e quattro gli evangelisti troviamo la stessa espressione della missione di Gesù.
Gesù è colui che battezza in Spirito Santo. Se battezzare nell’acqua significa immergere un corpo in un liquido esterno all’uomo in segno di un cambiamento di vita, battezzare nello Spirito significa immergere, inzuppare, impregnare la persona dello Spirito, cioè della stessa forza e della stessa vita di Dio.
Ma quando e come Gesù battezza in Spirito Santo? La risposta è nei vangeli, nel momento della cena con i suoi, nel momento dell’eucaristia. Infatti nella cena, dove i discepoli si impegnano ad essere fedeli a Gesù – mangiare il pane impegnandosi a farsi pane, alimento di vita per gli altri, anche a costo di fare la sua stessa fine, questo significa bere al calice – si
effonde sui discepoli e sui credenti di ogni tempo lo Spirito Santo che li rende come Gesù “Figli di Dio”.
La cena di Gesù quindi è il momento nel quale egli risponde a quanti lo hanno seguito con il dono dello Spirito Santo. Infatti, bevendo al calice, espressione dell’impegno di non porre limiti all’amore, i discepoli ricevono lo Spirito, la stessa forza d’amare del Padre.
La penetrazione di questo vino-sangue nell’intimo dell’uomo è la comunicazione dello Spirito, vita e forza d’amore che trasforma l’uomo.