22/10/2017

I DOMENICA DOPO LA DEDICAZIONE – Il mandato missionario - GIORNATA MISSIONARIA MONDIALE

  Commento su At 10,34-48a; 1Cor 1,17b-24; Lc 24,44-49°

 DON ANGELO CASATI   -

DON RAFFAELLO CICCONE 

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 ANGELO CASATI –LC 24, 44-49  

Per Luca sono parole ultime, queste di Gesù che oggi abbiamo ascoltato. Parole in una casa, dove gli undici e altri erano radunati, sorpresi da voci che li avevano sconvolti. Le voci davano per risorto il loro Maestro crocifisso. Parole ultime che invitano i discepoli, e con loro anche noi, alla testimonianza: “Di questo voi siete testimoni”. Alla fine che cosa ci ha detto? Ci ha consegnati a una testimonianza.

Subito dopo fece dono dello Spirito: sarà il segreto e, insieme, la forza dei testimoni. E ancora l’universalità, l’universalità della missione! Siamo per natura, ma anche per grazia, universali. Guai a dimenticarlo: si comincia da Gerusalemme, ma “nel suo nome saranno  predicati a tutti i popoli la conversione e il perdono dei peccati”. Lui ha legato, voi mi capite, il suo nome a tutti i popoli, il suo nome di crocifisso risorto.

Mai nessuno aveva sposato il nome di Dio a un uomo morto di croce, morto di una morte infamante, scandalo per i giudei, stoltezza per i pagani, al contrario notizia buona, evangelo, per i credenti, notizia buona questa follia di Dio. Che, pur di non farci dubitare del suo amore, non si è ritratto. Nemmeno davanti a una morte infamante di croce! Non è arretrato. Legato il nome a questa follia, e a questa universalità. Qui è il cuore e il respiro grande dell’evangelo. Siate testimoni presso tutti i popoli della follia di Dio, dite la follia di Dio. Non potete dirla con gli occhi spenti, non potete dirla con un cuore meschino. Di questo, di questo, voi siete testimoni.

Non andate ad occupare posti, non andate a ritagliare spazi o  insediamenti per la chiesa, sarebbe restrizione, restrizione dell’universalità. Non appesantitevi, siate semplicemente e radicalmente una voce che corre nella storia e attraversa la terra, tutta la terra, una voce che racconta la follia. La racconta più con la vita che con le parole. La follia di Dio è per tutti. Non fate della chiesa un luogo a  lato, un luogo altro. Non ragionate più dicendo “la chiesa e il mondo”, spazi per la chiesa e spazi altri per il mondo. No, la chiesa nel mondo, vivete nel mondo e raccontate, raccontate con la vita la follia di Dio. Che arde, splende, nel Signore morto di croce e risorto per tutti. E’ il cuore della testimonianza.

Che ha come conseguenza, sottolineavo. la universalità. Se costruite la comunità dei credenti come uno spazio riservato, voi ferite al cuore la universalità, perché voi, lo vogliate o no, finite per annunciare un Dio parziale, Dio di un luogo solo, di una religione sola, un Dio che fa preferenza di persone. È il sacrilegio sul nome di Dio., Che è legato, invece, di sua natura all’universalità. E tu che credi l’hai nel sangue l’universalità. Lo abbiamo sentito dire oggi da Pietro: “In verità sto rendendomi conto che Dio non fa preferenze di persone, ma accoglie chi lo teme e pratica la giustizia”.

Mi sembra però intrigante riandare con voi al contesto di queste parole di Pietro. Ci troviamo a Cesarea, nella casa di Cornelio, un centurione della coorte detta Italica, un pagano e che cosa accade? Prima ancora che Pietro termini il suo discorso – che ha al centro l’annuncio della follia di un Messia morto e risorto – nella casa accade una pentecoste: nemmeno erano battezzati, è già lo Spirito scende su di loro.

La conversione, diremmo, dei pagani. Ma vorrei farvi notare  che la conversione dei pagani era stata preceduta da un’altra conversione, altrettanto importante o forse ancora più importante, la conversione di Pietro.

Perché Pietro si trovava in quella casa? Ci era stato spinto, diremmo noi, interiormente – lo fossimo anche noi! – da una visione che aveva avuto giorni prima in casa sua a Giaffa, una  visione in cui Dio, attraverso simboli, lo aveva ammonito dal guardarsi dal chiamare profano, o immondo ciò che stava fuori dalla tradizione religiosa giudaica. In contemporanea erano giunti dei messi del centurione ad invitarlo. E, contrariamente a quanto la tradizione ordinava, Pietro li aveva accolti in casa, li aveva ospitati a pranzo, aveva accolto il loro invito. Ed eccolo lì, nella casa del centurione pagano, lui giudeo cui era vietato avere contatti o recarsi dagli stranieri! La conversione di Pietro. Nel racconto mi colpiva questo scambio di ospitalità tra le case: la casa di Giaffa, casa di Pietro, un giudeo, che ospita pagani e la casa di Cesarea, la casa di Cornelio, un pagano, che ospita giudei. E si mangia insieme, ci si racconta pensieri ed attese, il segreto del cuore.

“Dio” aveva detto Pietro “mi ha mostrato che non si deve  chiamare profano o impuro nessun uomo”. Nessuno senza Dio, nessuno sporco per natura. Pietro guarda,  ha la dimostrazione sotto gli occhi. Nessuno profano, nessuno impuro. Lo dichiara battezzando, dando un sacramento. Un segno di Dio. Pietro in tutto ciò vede la riprova che Dio non fa preferenze di persone. Non era forse questo che il rabbì di Nazaret aveva narrato con la sua vita? Lui che era passato beneficando e risanando?

Ma ecco che Pietro – e dobbiamo dirlo, è il proseguo del racconto – incontra delle grane a Gerusalemme. Dovrà difendersi,  difendere il suo operato dinanzi a quelli della sua stessa fede. Che gli rimproverano: “Sei entrato in casa di uomini non circoncisi, hai mangiato con loro”. Ci vorrà un Sinodo, ci vorrà un Concilio per aprire.

Ho letto, ho chiuso gli occhi, mi sono guardato intorno  e, credetemi,  mi è sembrato di rivivere oggi questa pagina del libro degli Atti, l’avventura del cristianesimo delle origini: il vescovo di Roma e molti con lui che aprono le porte, convinti, sulla parola del loro Signore, che nessun uomo è profano, e di conseguenza  dicono: “Apriamoci reciprocamente le case gli uni agli altri, ceniamo insieme”. E che cosa succede? Non spaventiamoci, non spaventiamoci delle incomprensioni, è successo anche agli inizi. Preghiamo in questa eucaristia perché insieme arriviamo a capire che nessuno, proprio nessuno, è profano o impuro agli occhi di Dio.

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 don Raffaello Ciccone -I domenica dopo la Dedicazione (Anno A)

Atti 10,34-48

Stiamo leggendo, negli Atti degli Apostoli, il quinto intervento su otto, pronunciato da Pietro a Cesarea in casa di Cornelio, un centurione che coltiva profondo rispetto per la religione d’Israele, a somiglianza dell’altro centurione di Cafarnao, ricordato da Luca (Lc7,1-10).

Questa testimonianza di Pietro è preziosa poiché esprime la traccia di evangelizzazione che gli apostoli e quindi la Comunità cristiana sviluppa nel primo secolo. Qui la trama dei pensieri è affidata a Pietro perché garantisca a tutte le comunità la ricerca della verità su Gesù.

“Mi sto rendendo conto” e Pietro scopre che, nonostante la convivenza di anni con Gesù, deve approfondire egli stesso il messaggio cristiano poiché, giorno per giorno, verificando situazioni e incontri, capisce quanto sia necessario misurarsi su ciò che avviene per capire meglio Gesù.

Bisogna, allora, richiamarsi alla vita di Gesù, prima di tutto.

– Egli comincia dalla periferia (Galilea), facendo del bene e curando coloro che sono vittime del male poiché ha la forza di Dio (vv 37-38). Il fatto che venga da un paese sconosciuto, Nazareth, non smentisce il valore della sua presenza. Egli ha veramente operato ed è verificabile. La fede cristiana si appoggia su una persona, non su idee o ragionamenti e noi siamo testimoni di un mondo che egli ha cominciato a cambiare. Gli uomini non hanno riconosciuto Gesù e lo hanno ucciso, crocifiggendolo (v 39).

– Ma Dio, quando ormai tutto sembra compromesso e tutta la vicenda di Gesù un inganno, sconvolge le leggi della natura risuscitando il suo servo fedele (v 40).

– Gesù, risuscitato, si è mostrato “a noi che abbiamo mangiato e bevuto con lui dopo la sua risurrezione dai morti” (41). Con questa attenzione per i suoi e non per una risurrezione visibile a tutti, ha voluto rispettare la libertà di ciascuno ed ha chiesto che credere in Lui si appoggi su un cammino di ricerca, di fedeltà e di fiducia.

– Così “ci ha ordinato di annunciare al popolo e di testimoniare che egli è il giudice dei vivi e dei morti, costituito da Dio” (v 42). E i testimoni sono coloro che hanno vissuto con Lui e lo hanno visto, con chiarezza, risorto. In tal modo sono testimoni di un “Gesù che giudica” poiché verificano quanto ciascuno di noi ha preso sul serio l’impegno ad essergli somigliante. Tuttavia, che Gesù sia giudice non suppone paura ma fiducia, poiché è colui che ha condiviso la nostra fatica ed ha sofferto i nostri stessi limiti umani e ci capisce ed ha misericordia.

– E i discepoli sono missionari non perché siano esemplari per la loro vita, ma perché possono riferire la parola e gli incontri con Gesù a chi voglia cogliere, con cuore puro, la loro testimonianza. Il Signore garantisce Pietro e Cornelio della sua accettazione e, in segno della convalida, investe gli ascoltatori di Pietro degli stessi doni di Pentecoste. In tal modo Pietro “scopre e si rende conto” che, prima ancora di ricevere il battesimo, la discesa dello Spirito Santo su Cornelio e i familiari indica, in maniera evidente, che il progetto di Dio è aperto anche per i pagani e la loro accoglienza nel Regno non passa più solo attraverso l’ebraismo, ma li inserisce, anche immediatamente, nella Chiesa mediante la fede in Gesù e il battesimo. Negli Atti il dono dello Spirito, come in questo caso, però, è strettamente legato alla fede, ancora non necessariamente al battesimo. E Pietro verifica che c’è fede, c’è stato ascolto, c’è l’accoglienza di Dio nello Spirito.

Ogni giorno siamo invitati ad “accorgerci” della presenza del Signore che ci precede nel cuore di ogni uomo e donna e ci svela le attese nel mondo.

1Corinti 1,17b-24

Il retroterra di questo testo va ritrovato nella esperienza di Paolo ad Atene. Non avendo ancora fatto i conti, fino in fondo, con la novità cristiana in ambiente pagano, sprovveduto di metodo, andando tra i greci, Paolo ritiene di ingolosirli del messaggio di Gesù, introducendo la presentazione della fede cristiana con suggestioni retoriche, con esemplificazioni filosofiche, con intuizioni religiose comuni a tutti gli uomini. Il discorso di Paolo ad Atene (At 17,22-31) è un capolavoro di presentazione della novità cristiana alla cultura greca. Ma Paolo non ha ancora misurato fino in fondo quanto sia esplosivo il messaggio di Gesù e come sia problematica la sua accettazione. Certamente Gesù è centrale nella proposta di Paolo, ma la sua presentazione deve essere sembrata come l’incontro di un testimone coraggioso e generoso che dà la vita per un messaggio od una idea religiosa. Alla fine tutta la sua introduzione sul cristianesimo si sfarina in una risata ed uno scuotimento di testa dei suoi ascoltatori: “Quando sentirono parlare di risurrezione dai morti, alcuni lo deridevano, altri dicevano: “Su questo ti sentiremo un’altra volta” (At 17,32). Paolo ricorda bene come arrivò a Corinto e ripete alla sua comunità di Corinto le stesse considerazioni che aveva fatto ripensando alla sua esperienza ateniese. Egli continua a riaffermare il suo atteggiamento a loro noto.

Umile, aderente all’esperienza sconcertante della vita di Gesù, senza la pretesa di raddolcire il messaggio, cerca di far conoscere il Vangelo come “vera e gioiosa nuova notizia: Cristo mi ha mandato ad annunciare il Vangelo, non con sapienza di parola, perché non venga resa vana la croce di Cristo “(v. 17). E se i giudei chiedono segni miracolosi che confermino Gesù come Messia, e i pagani chiedono la sapienza dei ragionamenti che possano convincere, noi, dice Paolo, sappiamo che è necessario diventare discepoli di Cristo crocifisso. Egli è il Messia atteso che, passando attraverso la passione e la morte, viene risuscitato da Dio. Ora questo segno divino non è sufficiente per i giudei e non convince l’intelligenza dei pagani, scandalo per i primi, in quanto non era previsto che il Messia atteso morisse, stoltezza per i secondi, perché: “Si è mai visto uno risorgere dai morti?”.

Paolo però continua ricordando che in tutta la vita della Comunità cristiana ci si scontra tra la sapienza del mondo e la sapienza cristiana. Questa dovrebbe aiutare a rileggere scelte, significati, valori e fatti. Essa dovrebbe essere al vertice delle proprie scelte poiché la sapienza cristiana non è ovvia, ma è sconcertante, spesso paradossale. Ha bisogno della forza di Dio, della preghiera, del consiglio delle persone sperimentate, del coraggio di rivedere le ovvietà con sana fiducia nel Signore.

Ci ritroviamo ogni giorno con questo interrogativo: “Che cosa il Signore ci chiede?

Come si presenta? Come posso vivere la sua presenza e la sua fede nel mio mondo quotidiano?”. E’ l’interrogativo di ogni comunità e di ogni battezzato. Che cosa la sapienza cristiana mi chiede perché veramente appaia il volto di Gesù in me? nella Chiesa? nel cammino con le persone di ogni giorno?

Luca 24,44-49a

Siamo alla conclusione del vangelo di Luca. Colpisce la frase: “Allora aprì loro la mente per comprendere le Scritture“.

Perché anche oggi, anche noi, per comprendere le Scritture, dobbiamo aprire la mente.

La Parola di Dio non dà una comprensione automatica: occorre un’apertura.

Un’apertura della mente. La mente non è lo spirito, non è la ragione, non è il sapere.

La mente è l’intelligenza, con la quale ci si introduce a intuire, carpire il “senso” della Parola contenuta nelle Scritture.

C’è un verbo greco (suniénai) che indica pienamente questo significato: il concentrare (sùn) tutte le proprie capacità interiori, la memoria, il cuore, le emozioni e i sentimenti, la lucidità e la semplicità del percepire e del vibrare, per avviarsi verso l’interno della parola scritta, appunto per coglierne il significato.

E’ Gesù, con il suo Spirito, che apre la mente a questa intelligenza delle Scritture: bisogna allora accostarsi ad esse primariamente non puntando sulle nostre bravure intellettuali e razionalistiche, ma affidandoci ad una preghiera che ci consenta di essere disponibili completamente a dove ci vuole condurre.

Un’altra sottolineatura è sul contenuto della testimonianza (di questo voi siete testimoni): la misericordia e il perdono.

Dio non è un padrone temibile o un giudice autoritario, ma è ricco di amore e di misericordia e vuole che gli uomini, sue creature, suoi figli e figlie, siano felici.

Gesù non è entrato nella storia e nell’umanità per condannare, ma per salvare, cioè per dare vita e vitalità. E’ questo che va annunciato e proclamato a voce altissima.

A tutti. A partire da quelli che incrociamo ogni giorno.

don Raffaello Ciccone e Teresa Ciccolini (Vangelo)

Tratto da Qumran2.net