22/07/2018

COMMENTO  alle letture IX DOMENICA DOPO PENTECOSTE

                                                   Anno B – Rito Ambrosiano

MC 8, 34-38

DAL SITO “CENTRO STUDI BIBLICI G. VANNUCCI “

MONTEFANO (Mc) 

P. ALBERTO MAGGI – OSM

“DALLA CROCE UNA PROMESSA DI VITA”

“mentre i Giudei chiedono i miracoli e i Greci cercano la sapienza, noi predichiamo Cristo crocifisso, scandalo per i Giudei, stoltezza per i pagani…” (1 Cor 1,22-23)

QUEL CHE NON E’ “CROCE

Il Concilio Vaticano II richiama i cristiani alla grave responsabilità che hanno verso i non credenti. Il rifiuto di Dio da parte di costoro è dovuto anche all’incompleta o errata rappresentazione che viene loro fatta dell’immagine di Dio: “Altri si rappresentano Dio in modo tale che quella rappresentazione che essi rifiutano, in nessun modo è il Dio del vangelo… in questo campo anche i credenti spesso hanno una certa responsabilità… in quanto per aver trascurato di educare la propria fede, o per una presentazione fallace della dottrina… nascondono e non manifestano il genuino volto di Dio” (GS 19).

Al fine di evitare questo errore si afferma nella Dei Verbum che: “E’ necessario che tutta la predicazione ecclesiastica come la stessa religione cristiana sia nutrita e regolata dalla Sacra Scrittura… e lo studio delle sacre pagine sia dunque come l’anima della sacra teologia” (DV 21.24).

Se c’è un’immagine distorta di Dio capace di deformare il suo essere ed il suo agire con gli uomini, è l’idea – ancora abbastanza radicata – del Dio che “manda” le croci: è infatti facile udire nel linguaggio di tutti i giorni frasi quali:

“ognuno ha la sua croce”,

“è la croce che il Signore ci ha dato”,

In tutte queste espressioni, per “croce” si intendono le inevitabili tribolazioni che incontriamo nella vita.

Se confrontiamo il nostro pensare e parlare con quanto insegnano i vangeli vediamo che nel Nuovo Testamento mai viene associata la figura della “croce” (gr. stauròs; xylon) con la tribolazione dell’uomo. Della settantina di volte (73) che nel NT si parla della croce, non si trova una sola espressione che la indichi come sofferenza che non è possibile evitare e che ogni uomo deve accettare e sopportare (solo nel V secolo compare in una preghiera cristiana la “croce” col significato di “sofferenza”, cf Pap. Oxyrhyncus VII 1058,2).

Le sofferenze, le malattie, i lutti, le difficoltà di relazione interpersonale, vengono sempre nel NT chiamate col loro nome e non vengono mai equivocate con il significato che la “croce” ha assunto nell’insegnamento e nella morte di Gesù.

CONDIZIONE PER LA SEQUELA

L’invito a sottomettersi volontariamente al supplizio della “croce” – completamente assente nell’ AT e nella letteratura ebraica – è nel Nuovo Testamento, e in particolare nei vangeli, strettamente legato alla sequela di Gesù, sempre proposto e mai imposto.

Nei vangeli questo invito appare in tutto solo cinque volte (due volte in Matteo [10,38; 16,24] e Luca [9,23; 14,27], una volta in Marco [8,34] mai in Giovanni, e viene sempre espresso per sciogliere un equivoco.

In tutti questi brani gli evangelisti stanno molto attenti a non usare verbi come “portare” [gr. pherô], “accogliere” “accettare” [gr. dechomai] la croce, termini che indicherebbero un atteggiamento passivo dell’uomo al quale non rimarrebbe che accettare quanto Dio ha stabilito.

Gli evangelisti usano i verbi “prendere” [gr. lambanô] e “sollevare” [gr. airô; bastazô], sottolineando con questo il preciso momento in cui il condannato afferra con le proprie mani lo strumento della propria morte. La croce non viene mai data da Dio ma presa dall’uomo, come conseguenza di una libera scelta fatta dall’individuo che, accolto Gesù ed il suo messaggio, ne accetta anche le estreme conseguenze di un marchio infamante.

Per questo la croce non è per tutti: “Se qualcuno…”, “Se vuoi…” è la formula della proposta di Gesù che è sempre diretta ai suoi discepoli e alla loro libera volontà. Un invito – chiarissimo nelle sue conseguenze – e non un’imposizione che grava su tutti. Il Signore non costringe alla sua sequela dei rassegnati, ma invita persone libere che volontariamente ed entusiasticamente lo seguano.

Mai Gesù propone – e tantomeno impone – la “croce” a qualcuno fuori del suo gruppo, L’unica volta in cui questo invito è rivolto alla “gente” è proprio per chiarire le condizioni del discepolato (cf Lc 14,25-27). 5 La croce era il supplizio per i disprezzati, per i rifiuti della società, e Gesù, che non offre titoli, privilegi, posti onorifici, avverte coloro che intendono seguirlo che – se non arrivano ad accettare che la società, civile e religiosa, li consideri delinquenti e bestemmiatori, che il sistema su cui si regge il mondo li dichiari gente indesiderabile – non lo seguano! Perché costoro: “quando giunge una tribolazione o persecuzione a causa del messaggio, cadono!” (Mc 4,17).

Prendere la croce quindi non è subire rassegnati quanto di brutto accade nella vita, ma accettare volontariamente e liberamente, come conseguenza della propria adesione a Gesù, la distruzione della propria reputazione, e di se stessi: “Se hanno chiamato Belzebul il padrone di casa, quanto più i suoi familiari!” (Mt 10,25) “Sarete odiati da tutti a causa mia!” (Lc 21,17).

L’infamia della croce è il prezzo da pagare per la creazione di una società alternativa chiamata “Regno di Dio” i cui valori sono diametralmente opposti a quelli della società ingiusta: –

CONDIVISIONE invece di ACCUMULO, -

 EGUAGLIANZA invece di PRESTIGIO, –

SERVIZIO invece di DOMINIO.

La croce diviene un passaggio inevitabile ed indispensabile per ogni credente che voglia seguire Gesù nel cammino della verità verso la libertà (cf Gv 8,32).

Solo chi è libero può veramente amare e mettersi a servizio di tutti (cf 1 Cor 9,19; Mc 9,35), e perdere la propria reputazione è l’unico modo per essere totalmente liberi e di conseguenza pienamente animati dallo Spirito! (cf 2 Cor 3,17). Quando il credente rinuncia alla propria reputazione è maturo per il passo successivo: perdere la paura della morte.

Fintanto esiste questa paura non è libero di fronte a quanti lo possono minacciare. Gesù invita a non considerare neanche la vita fisica come un valore supremo, non con una fanatica chiamata al martirio, ma trasmettendo la certezza che la vita che lui comunica all’uomo è di una qualità tale da superare persino la morte (cf Mc 8,35; Gv 6,51; 12,24).

Per questo il legno della croce, da sterile strumento di distruzione dell’uomo si trasforma nel vivificante “albero della vita” (gr. xylon tês zôês, cf Ap 2,7; cf Gen 2,9) che trasmette all’uomo linfa vitale per oltrepassare la morte.