07/01/2018

BATTESIMO DEL SIGNORE- Gloria e lode al tuo nome, Signore

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ALBERTO MAGGI – MESSAGGIO PER IL NUOVO ANNO

 DON ANGELO CASATI – COMMENTO AL VANGELO- MC 1, 7-11

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Il messaggio di Alberto Maggi per il nuovo anno

Come racconta su ilLibraio il biblista Alberto Maggi, da sempre gli uomini (anche nella Chiesa) si lamentano del presente, esattamente come oggi, e fantasticano con nostalgia di un bel tempo passato…

Ma si può vivere serenamente l’oggi e andare incontro fiduciosi al futuro, confidando in quel Gesù che assicura: “Non preoccupatevi dunque del domani, perché il domani si preoccuperà di se stesso”

“Di questi tempi” oppure “al giorno d’oggi” sono espressioni che precedono sempre qualcosa di negativo, sia che si parli dei giovani come della politica, della famiglia, del lavoro e così via (la moda d’oggi, le canzoni di oggi). Si rimpiangono i “bei tempi”, che sono sempre quelli “di una volta”, mai del presente, con tutto il corollario di nostalgia per tempi felici, paradisiaci, che non torneranno più, come la moda di una volta, le canzoni di una volta, la gioventù e persino la vecchiaia, che non è più quella che era, perché in passato i vecchi, ovviamente quelli “di una volta”, erano modelli di saggezza e di sapienza.

Se però si va a ritroso nel tempo, alla ricerca di quando, in che epoca, i tempi erano stati buoni, positivi, si vede, sorprendentemente, che da sempre gli uomini hanno vissuto con disagio il presente (“non si va più avanti”), hanno avuto paura del futuro (“dove andremo a finire”) e hanno guardato con nostalgia al passato (“eh, una volta sì che…”). Così si corre il rischio di trascorrere la propria vita senza scorgere il bello che invece c’è e che solo le generazioni successive scopriranno con rimpianto.

La storia dimostra che migliaia di anni fa ci si lamentava della moda, del traffico e della gioventù esattamente come si fa oggi. In un papiro egizio di ben cinquemila anni fa si legge: “Nemmeno i tempi sono più quelli di una volta. I figli non seguono più i genitori” e in un frammento d’argilla babilonese di tremila anni fa è scritto: “Questa gioventù è guasta fino al midollo; è cattiva, irreligiosa e pigra. Non sarà mai come la gioventù di una volta. Non riuscirà a conservare la nostra cultura”.

Nel settimo secolo a.C., il profeta Michea si lamentava che “il figlio insulta suo padre, la figlia si rivolta contro la madre, la nuora contro la suocera” (Mi 7,6). Platone, circa quattro secoli prima di Cristo, deplora il padre che “si abitua a rendersi simile al figlio e a temere i figlioli, e il figlio simile al padre e a non sentire né rispetto né timore dei genitori, per poter essere libero… I giovani si pongono alla pari degli anziani e li emulano nei discorsi e nelle opere, mentre i vecchi accondiscendono ai giovani e si fanno giocosi e faceti, imitandoli, per non passare da spiacevoli e dispotici” (Rep. VIII, 562‑563).

Marziale, poeta spagnolo del primo secolo, vissuto a Roma, si doleva che in questa città, diventata troppo grande, era faticoso vivere e non si sopportavano più i rumori del traffico (Epigr. XI, 57,5). Nel secondo secolo, il poeta Giovenale si lamentava anche lui dei mali di Roma, del rumore, dei profughi (!), della delinquenza, del costo della vita e rimpiangeva i bei tempi del passato: “Felici i padri dei nostri bisavoli! Beati i tempi dei re e dei tribuni quando bastava a Roma una prigione” (Sat. III, 302‑314).

Anche nella Chiesa, che pure era stata chiamata dal Cristo a essere la testimone visibile della buona notizia e ad avere piena fiducia nell’azione del suo Signore, la visione negativa del presente era comune in larghi settori della stessa. Basti pensare al focoso Pietro l’Eremita, il quale predicando la necessità della prima crociata, nel 1095, diceva: “Il mondo sta attraversando un periodo tormentato. La gioventù di oggi non pensa più a niente, pensa solo a se stessa, non ha più rispetto per i genitori e per i vecchi; i giovani sono intolleranti di ogni freno, parlano come se sapessero tutto. Le ragazze poi sono vuote, stupide e sciocche, immodeste e senza dignità nel parlare, nel vestire e nel vivere”. Gli ultraconservatori hanno sempre vissuto le novità del presente come un pericolo. Forse i nostalgici odierni si ritrovano d’accordo con questo fosco quadro del mondo contenuto nell’affermazione del Sinodo dei vescovi italiani riuniti a Pistoia nell’anno 1794: “In questi ultimi secoli si è prodotto un generale offuscamento sulle verità di maggiore importanza, che riguardano la religione e che sono a base della fede e della dottrina morale di Gesù Cristo” (Cost. Auctorem Fidei, Denzinger, 2601). Eppure il papa di allora, Pio VI, condannò come eretica questa visione pessimistica, nonostante che i tempi fossero veramente brutti: Pio VI è uno dei pochi papi che hanno sperimentato la prigionia e che, travolto dalla grande bufera della Rivoluzione francese, morì deportato.

Secoli fa, quindi, si lamentavano del presente esattamente come oggi e fantasticavano di un bel tempo passato… quando appunto a Roma una prigione bastava e avanzava! La scontentezza con la quale si guarda e si vive il presente si è proiettata anche nella spiritualità e ha esercitato il suo influsso in certe devozioni intrise di pessimismo, così contrarie alla pienezza della gioia desiderata e augurata da Gesù (Gv 15,11; 17,13). Già nell’Antico Testamento s’insegnava che sragionano quanti pensano che “la nostra vita è breve e triste”, perché “non conoscono i misteriosi segreti di Dio” (Sap 2,1.22). È proprio il non conoscere il disegno di Dio quel che ha trasformato la vita da dono del Signore in penoso esilio. Tuttavia la storia dell’umanità, per usare le parole di Ireneo di Lione, “non è quella di una penosa risalita dopo una caduta, bensì un cammino provvidenziale verso un futuro pieno di promesse” (Adv. Haer., lib. IV, 38). Il racconto della creazione (Gen 1-3), al quale tante volte ci si rifà come ad un paradiso perduto, non è il rimpianto per un eden irrimediabilmente scomparso, ma una profezia per il mondo da realizzare che gli uomini sono chiamati a costruire. L’essenza stessa della creazione è di essere nuova e di manifestarsi sempre in una maniera inedita, mai ripetitiva. Per questo il Vangelo si apre con un invito ad aprirsi al nuovo, a non mettere il vino nuovo negli otri vecchi, ma “vino nuovo in otri nuovi” (Mt 9,17), altrimenti, mette in guardia Gesù, “nessuno poi che beve il vino vecchio desidera il nuovo, perché dice: il vecchio è gradevole!” (Lc 5,39). La dinamica della vita è quella di “ricondurre i cuori dei padri verso i figli” (Lc 1,17) e non quello dei figli verso i padri (Ml 3,24). È il vecchio che deve aprirsi ed accogliere il nuovo, non il contrario.

Lasciando da parte un passato che è bello solo perché è passato, quindi in parte dimenticato o idealizzato, si può vivere serenamente il presente e andare incontro fiduciosi al futuro, confidando in quel Gesù che assicura: “non preoccupatevi dunque del domani, perché il domani si preoccuperà di se stesso” (Mt 6,34).

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DON ANGELO CASATI – COMMENTO AL VANGELO- MC 1, 7-11

Battesimo del Signore MC 1, 7-11

omelia dell’11 gennaio 2015

Perché la liturgia, a pochi giorni dal racconto dei Magi, va a scovare, come momento privilegiato tra le manifestazioni di Gesù, l’episodio del battesimo al Giordano?

Può essere che  qualcuno di noi sia rimasto sorpreso controllando i versetti che racchiudono il nostro brano: Vangelo di Marco, primo capitolo, dal settimo all’undicesimo versetto.  Se non controllassimo, penso ci verrebbe spontaneo pensare che non siamo al primo capitolo, ci verrebbe naturale pensare che, come fanno gli altri evangelisti, Marco abbia già raccontato del suo concepimento, della sua nascita, che so io, della fuga in Egitto. Nulla di tutto questo. Queste che abbiamo ascoltato sono le prime parole riguardanti Gesù nel vangelo di Marco. E’, perdonate, la sua entrata  in scena, la sua epifania, la sua prima manifestazione pubblica. Riascoltiamo: “Ed ecco in quei giorni venne Gesù da Nazaret di Galilea  e fu  battezzato nel Giordano da Giovanni” .  Noi sorvoliamo, perché abbiamo fatto l’abitudine a sentirci dire che Gesù fu battezzato nelle acque del Giordano, ma Marco, per parlarne, usa un verbo greco che dice evento “avvenne”, un evento! Parola, questa,  “evento” che noi oggi abbiamo scolorita, usandola a ogni piè sospinto, anche per le cose più banali. E’ come se Marco segnalasse una prima sorpresa. Che era stata, diciamolo, anche del Battista. Di Gesù Giovanni aveva detto. “ Viene dopo di me colui che è più forte di me…egli vi battezzerà in Spirito Santo”. E a Giovanni  –  ma anche a noi –  non parve, penso,  vero, non voleva credere ai suoi occhi. Ma come? “Viene uno più forte”: ma questa è una manifestazione di forza? Ma dove mai? “Viene uno che battezzerà”: e invece è uno che viene battezzato. “Battezzerà” all’attivo, “fu battezzato” al passivo. Ma cosa sta succedendo?

Gli occhi, i nostri, vanno a quel tratto di fiume, a quella lunga indistinta fila che aspetta il turno. E Gesù confuso, niente separatezze. D’accordo, diremmo noi, in mezzo a tutti, ma almeno un piccolo segno che ti faccia riconoscere, che ti distingua, che ti crei almeno una precedenza. No, aspetta il turno. Che sia anche questo, pensavo, un aspetto, e non marginale su cui sostare? Pensate una chiesa nella fila con tutti, nessuna distinzione, nessun privilegio, aspetta il suo turno, come il suo Signore.

Eppure , se proseguiamo nel racconto, dobbiamo dire che un riconoscimento ci fu, per quel Messia abbassato, abbassato nelle acque e abbassato nella fila di peccatori. Anche questa, una cosa su cui indugiare: lui non cercò nessun riconoscimento, il riconoscimento quel giorno glielo diede Dio. Riconosciuto da Dio, un riconoscimento dall’alto. Una verità da ricordare. Un giorno Gesù ai discepoli, esultanti per aver liberato alcuni indemoniati, dirà: “Non rallegratevi però perché i demoni si sottomettono a voi; rallegratevi piuttosto che i vostri nomi sono scritti nei cieli” (Lc 10,20). Questo vi interessi, e vi appassioni: che siete riconosciuti in cielo.

E quel giorno al Giordano si aprirono i cieli: “E subito, uscendo dall’acqua vide squarciarsi i cieli e una voce dall’alto: tu sei  il Figlio mio, l’amato, in te ho posto il mio compiacimento”.

Per l’evangelista Marco a vedere i cieli squarciarsi  fu Gesù. E udì, udì la voce che gli diceva: “Mi compiaccio di te”. Perdonate, come se avesse bisogno anche lui di essere confermato nella sua scelta, nella scelta di stare in mezzo, in mezzo ai peccatori. Era come se in Gesù, come succede a tutti noi, prendesse sempre più forma la coscienza della missione cui il Padre lo andava chiamando. Veniva da Nazaret, non sarebbe rientrato tra i suoi, e non sarebbe nemmeno rimasto con Giovanni nel deserto. Sua missione andare per villaggi. Annunciando che cosa? Annunciando potremmo dire la vicinanza. Due versetti, dopo i nostri, Marco scrive: “Gesù andò  nella Galilea proclamando: Il tempo è compiuto. Il regno di Dio è vicino. Convertitevi e credete nel Vangelo” Cioè credete che il regno di Dio è vicino, si è fatto vicino, più non incombe minaccioso dall’alto, questa religione si è squarciata nelle acque del Giordano. Si sono squarciati i cieli, si è squarciata una religione, quella  che racconta Dio come distanza. Squarciata l’immagine di un Dio dell’ira, della vendetta.  Guardalo nelle acque, è l’inizio del vangelo di Marco, e guardalo sulla Croce, è la fine del vangelo. Anche quel giorno di squarciarono i cieli, i cieli che raccontano la distanza. E fu rivelazione del Dio della vicinanza, spinta fino a quel punto, alla croce.

Ebbene oggi questa opposizione dei termini “distanza-vicinanza” ci è stata più volte evocata da Paolo nella sua lettera.

Vicinanza. Paolo evoca innanzitutto la vicinanza ‘di Dio con l’umanità’: “In Cristo Gesù, voi che un tempo eravate lontani, siete diventati vicini”. Ma Paolo nella lettera svela anche come il mistero della vicinanza di Dio sia a contagio, da vicinanza si passa a vicinanza, da quella di Dio con noi a quella di noi tra di noi.  Gesù ha cancellato le distanze. “Gesù” scrive Paolo “dei due” – ebrei e  pagani –  “ dei due ha fatto una cosa sola, abbattendo il muro della separazione che li divideva, cioè l’inimicizia …”.

Immagino – mi è facile pensarlo – che vi siate se chiesti se dobbiamo credere a queste parole anche in giorni come i nostri  in cui, non solo si costruiscono muri a segnare la distanza, l’impermeabilità, ma al segno della distanza si aggiunge drammaticamente il segno del sangue, del sangue dell’altro. E non in una sola città del mondo, non in una sola parte del mondo.

Ebbene mi sono detto: se queste parole le cancelliamo, e nella vita facciamo come non fossero, se quando parliamo degli eventi di questi giorni parliamo come se queste parole dell’evangelo non esistessero, se il messaggio della vicinanza diventasse tristemente ininfluente, dovremmo, per debito di sincerità con noi stessi, concludere che il cristianesimo è morto e non ha più nulla da dire. E invece no, povera, minoranza come siamo, persistiamo a credere che il bene dell’umanità non sia invelenire gli animi, ma tentare strade nuove, perché, passo dopo passo, ci si avvicini a una terra meno segnata dalla barbarie, il vecchio mondo della distanza, per dare sempre più forma nella storia al sogno di Dio, un modo nuovo di stare nella storia, il regno di Dio, quello della vicinanza. Cui ha dato inizio Gesù, nel giorno in cui si immerse nelle acque del Giordano.