S.S. CORPO E SANGUE DI CRISTO –Tu ci disseti, Signore, al calice della gioia
SOLENNITA’ DEL SIGNORE
COMMENTO e SCHEDA STORICA di:
PAOLO FARINELLA Prete
Spunti di omelia
Oggi celebriamo il corpo, anzi la carne. La parola carne, in ebr. basàr e in gr. sarx, indica in rapporto ai viventi tutto ciò che è corruttibile, fragile, mortale. Carne si oppone a Dio che è eterno, onnipotente e spirituale. Nel NT la parola carne ricorre 158 volte circa e ha sempre il significato di creaturalità/uomo/essere vivente finito. Il suo opposto è ciò che si riferisce a «spirito/spirituale». Tutta la fede cristiana è una tensione tra carnalità e spiritualità: questa tensione non si risolve nella negazione della prima a vantaggio della seconda perché la fede cristiana è tutta carnalità e tutta spiritualità, in forza dell’audace affermazione di Gv 1,14: «Il Lògos-carne fu fatto».
La solennità del Corpo e del sangue del Signore ci conferma in questa prospettiva e ci obbliga a prendere coscienza che l’Eucaristia è il sacramento principe di questa realtà «materiale». Il Cristianesimo non è nemico della materia, del corpo e della sensibilità, al contrario esso valorizza ciò che è materiale perché lo riconosce e lo assume nella sua creaturalità, svuotandolo di ogni presunzione di sacralità. Oggi, infatti, noi celebriamo il «pane», il «vino» o per usare un linguaggio biblico: « la carne e il sangue».
La solennità del «corpus domini» è quindi l’immersione nella materia fisica, anzi nella gracilità della condizione umana che ora è anche la dimensione di Dio, l’eterno incarnato nella fragile consistenza di un pane e di un vino poveri alimenti della mensa dei poveri. Non è un banchetto succulento o ricco, è solo un pane e un vi-no: la desolazione della povertà.
Nel sacramento dell’Eucaristia come in tutti i sacramenti, la materia simbolica che esprime il senso pro-fondo della realtà è sempre un elemento della natura che è anche alimento dell’umanità come l’acqua, l’olio, il pane, il vino oppure elementi portanti della relazione umana, come il perdono e l’amore. Il senso di questi ele-menti/alimenti/relazione è rivelato da una parola formale che nel momento in cui li sottrae al loro significato materiale, li svela e li rivela come veicoli di un senso nuovo e vitale: «Questa è la mia carne… questo è il mio sangue» sono affermazioni da brivido che non possono essere più intese nel senso materiale, ma siamo costretti dalle parole stesse ad entrare in una dimensione nuova che solo la rivelazione può esprimere: carne e sangue sono la natura del Figlio di Dio, la sua vita e questa vita comunicata a noi in forma di cibo che alimenta la vita. Si forma così un circuito di comunione che alimenta in forma costante vita da vita.
Nulla è estraneo a Dio, non lo spirito, non la materia, non il nostro corpo che partecipa della sua stessa identità. Ogni giorno facendo la comunione, noi diventiamo «Corpo di Cristo» e nel momento in cui lo riceviamo noi ne prendiamo atto e con una parola solenne di fede rispondiamo:: «Amen/Tu, mio Dio, sei il mio Re Fedele», inserendoci così anche noi in una dimensione di fedeltà. Il nostro corpo è anche sede di passioni, di tendenze, di fratture, di ansie, di bisogni, di aneliti, di stanchezze, di malattie, di fatica, di pesantezza, di forza, di gioia, di tenerezza… tutto ciò fa parte della fragilità umana e in quanto tale appartiene a Dio perché oggi «nella carne di Dio» noi celebriamo «un Dio di carne».
In ebraico la parola «cuore» si dice «lebàb» (pronuncia: levàv) e insegnano i rabbini che le due «b» stanno a significare le due tendenze che animano il cuore umano: quella verso il bene e quella verso il male che non possono essere estirpate per cui bisogna amare Dio con tutte e due le tendenze, anche con la tendenza verso il male. Per questo nello Shemà Israel si dice «amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le tue forze (= tutti i tuoi averi)» (Dt 4,5). Coloro che separano lo spirito dalla carne, l’anima dal corpo fanno un’operazione antistorica e contraria alla fede. Oggi è il giorno della «fisicità» di Dio il quale raggiunge il culmi-ne di un lungo processo di incarnazione iniziata nell’esodo attraverso segni anticipatori del sacramento che oggi viviamo come realtà di fede.
Tutta la storia della salvezza prepara al punto di arrivo che è il discorso del «pane » di Gv 6. Un lungo percorso per giungere alla carnalità di Dio:
– Nel deserto il popolo è nutrito con la manna che Dio provvede (Es 16,13-15), quasi a dire che il sostentamento della vita e la vita stessa sono opera esclusiva di Dio. L’esodo della libertà è segnato e nutrito dal pane e dall’acqua che piovono dal cielo, senza concorso umano. Si direbbe che l’esodo è la fatica di Dio che porta il peso della sopravvivenza del suo popolo. Nell’esodo Dio si fa manna.
– Pane al mattino e carne alla sera ricevette anche Elia, quando fuggì dalla regina Gezabele e rifece al contrario il cammino del suo popolo: dalla terra promessa alla montagna di Dio, l’Oreb nel Sinai (1Re 17,6). Camminare verso la montagna di Dio non è una passeggiata, ma un esodo che impegna la vita stesa e bisogna essere equipaggiati per non morire lungo la strada: «Alzati, mangia perché il cammino è troppo lungo per te. Si alzò, mangiò, bevve e camminò con la forza di quel cibo quaranta giorni e quaranta notti verso il monte di Dio, l’Oreb» (1Re 19,7-8).
– La vedova di Zarepta prepara un pane per il profeta Elia. anticipo del pane eterno perché la farina della sua madia non si esaurì (1Re 17,11-16).
– Gesù stesso ricorda la manna come anticipazione del pane disceso dal cielo che ora è lui stesso, mandato dal Padre a nutrire gli uomini con la sua volontà di salvezza(Gv 6,31-33).
Ogni volta che celebriamo l’eucaristia facendo memoria condivisa del pasto di Gesù in cui volle «legarsi» definitivamente a noi e alla dimensione della nostra vita umana, noi entriamo nel «mistero pasquale» della passione, della morte, della risurrezione, dell’ascensione e della pentecoste e sperimentiamo la vita di Dio come alimento, cibo e bevanda, comunione di vita, sacramento di unità, anticipo della vita eterna.
Nel giorno in cui veneriamo e viviamo Dio in quanto corpo/carne, non possiamo non pensare ed essere uniti e solidali con tutti i corpi/carne dilaniati, squartati, violati, violentati e stuprati nel mondo. Oggi il nostro cuore è accanto ai bambini e alle bambine vittime della pedofilia, di cui si rende colpevole anche chi dovrebbe essere maestro e custode dei corpi indifesi. Oggi vogliamo essere accanto e solidali con le donne violate e vilipese nel loro corpo e quindi nella loro anima. Vogliamo essere un argine alle violenze immonde e per questo chiediamo di diventare «ostie» di frumento fragile e fragrante, simbolo di fedeltà alla Vita.
Celebrare il «corpo del Signore» significa anche prendere coscienza che questo «corpo» di Dio patisce la fame a causa della miseria causata da sistemi d’ingiustizia e di potere che si autodefiniscono cristiani. La fame di tanta parte dell’umanità, dopo duemila anni dall’incarnazione di Cristo nella nostra umanità, è la bestemmia più grave che grida al cospetto di Dio. «Dacci oggi il nostro pane quotidiano» è ancora l’urlo dei «corpi di Cristo» abbandonati alla morte per fame e miseria: fame di dignità e di decoro, fame di giustizia e decenza, fame di diritti e di ospitalità, fame di vita e di amore.
Nel ricevere «il corpo e il sangue di Cristo» nella comunione, prendiamo consapevolezza e coscienza di essere responsabili di quella di affamati nel corpo da non avere nemmeno la forza di accorgersi di avere un’anima. La nostra dimensione, quando sperimentiamo l’impotenza e la solitudine di fronte alle grandi sfide della storia, non può essere che la prospettiva sacerdotale della lettera agli Ebrei 10,5-8, quella prospettiva esige da noi che diventiamo come Lui «corpo e sangue» che si spezza e si effonde per la condivisione dei poveri:
«5Tu non hai voluto né sacrificio né offerta, un corpo invece mi hai preparato. 6 Non hai gradito né olocausti né sacrifici per il peccato. 7 Allora io dico: Ecco, io vengo – perché di me sta scritto nel rotolo del libro – per fare, o Dio, la tua volontà».
Queste parole, oggi, solennità del Corpus Domini, sono Parola di Dio, profezia annunciata su ciascuno di noi, perché ora, qui e adesso, nel momento della comunione con la Sua Carne e il Suo Sangue, ciascuno possa di-re: «Ecco, io vengo, o mio Re Fedele, per fare la Tua Volontà!», cioè «Amen!Amen!».
FARINELLA
CORPUS DOMINI – Scheda Storica
La solennità del «Corpo del Signore» è stata instaurata in forma privata nei secc. XII-XIII. Una suora ospedaliera belga, Giuliana di Mont-Cornillon, della diocesi di Liegi (Belgio) nel 1208 ebbe una visione in cui le apparve la luna piena con una incrinatura nel disco. Due anni dopo un’altra visione le spiegò che quella incrinatura significava la mancanza di una celebrazione autonoma dell’istituzione dell’Eucaristia. Fino ad allora, infatti, per 1200 anni ca., il «memoriale» dell’Eucaristia si celebrava sempre al giovedì santo, in un clima di mestizia e di sofferenza, dove tutto convergeva naturalmente verso il venerdì santo che prese sempre più piede fino a imporsi sugli altri giorni del triduo pasquale tanto da snaturarne il vero senso. Ciò che la suora belga chiedeva era festa specifica che celebrasse l’istituzione stessa dell’Eucaristia.
Nel 1246 per mezzo del canonico di San Martino di Liegi, Giovanni di Losanna, la suora chiese ufficialmente l’istituzione di questa festa nella sua diocesi e il Vescovo, Roberto di Torote, dopo una discussione teologica l’adottò e con decreto stabilì che la festa si celebrasse il giovedì dopo la Festa della Santa Trinità (60 giorni dopo la Pasqua), anch’essa instaurata per prima dalla stessa diocesi di Liegi che adesso vi legava anche quella della Eucaristia con un intento evidente: tutta la vita trinitaria di Dio si manifesta e si compie nel sacramento del pane e del vino. La suora fece comporre una ufficiatura propria della festa che cominciava con le parole «Animarum cibus», di cui è rimasto solo qualche frammento. La festa fu celebrata solennemente per la prima volta nel 1247 a Liegi.
Con proprio decreto del 29 dicembre 1253 inviato alle autorità religiose e ai fedeli della sua legazione, il card. Ugo di San Caro, legato papale in Germania, non solo confermava il decreto istitutivo della festa del vescovo di Liegi, ma lo estendeva ai territori di sua pertinenza, concedendo anche una speciale indulgenza alle chiese in cui si celebrava la nuova solennità.
Partito il legato da Liegi, la festa fu contrastata da molti ecclesiastici che vi si opposero tanto che la celebrazione fu solo officiata nella chiesa di San Martino di Liegi, dove era iniziata. Nel 1258 moriva suor Giuliana di Mont-Cornillon, lasciando l’eredità dell’impegno eucaristico ad una suora di nome Eva e sua confidente. Il 29 agosto 1261 divenne papa Giacomo Pantaleone col nome di Urbano IV che quando era arcidiacono a Liegi aveva conosciuto la beata Giuliana. Su sollecitazione del vescovo suor Eva scrive al papa chiedendo il riconoscimento ufficiale della festa. Il papa non solo istituisce la festa del Corpus Domini, ma l’estende anche a tutta la chiesa.
A questa scelta il papa fu spinto anche da un fatto miracoloso. Un prete boemo, Pietro da Praga, aveva dei dubbi sulla trasformazione del pane e del vino nel corpo e sangue di Cristo. Nel 1263 mentre celebrava la Messa sulla tomba di Santa Cristina a Bolsena, vide delle gocce di sangue stillare dall’ostia consacrata che si depositarono sul corporale e sul pavimento. Egli corse dal papa Urbano IV che si trovava a Orvieto. Verificato il miracolo e visto il corporale (oggi conservato ad Orvieto), il papa istituì la festa del Corpus Domini.
San Tommaso d’Aquino ricevette l’incarico di comporre l’intero ufficio della festa secondo il rito romano che ancora oggi sostituisce quello originario francese. Si narra che San Tommaso scrisse l’intero ufficio in ginocchio davanti al tabernacolo appoggiandosi direttamente sull’altare. Si stabilì definitivamente che la festa fosse celebrata il giovedì (feria quinta) dopo l’ottava di Pentecoste che coincideva con il giovedì successivo alla festa della Trinità, cioè 60 giorni dopo la Pasqua, come aveva stabilito il vescovo di Liegi. Questo in teoria. Di fatto la norma papale non ebbe seguito a motivo dei torbidi militari che infestavano l’Italia e bisognò aspettare ancora 40 anni prima che il Corpus Domini diventasse di fatto e di diritto festa della chiesa universale per opera di papa Clemente V, ma specialmente di papa Giovanni XXII. Era l’anno 1318.
E’ passato più di un secolo dalla visione di suor Giuliana di Mont-Cornillon.
Introduzione alla liturgia
La solennità del Corpus Domini – Corpo del Signore è un ulteriore prolungamento della Pasqua che abbiamo vissuto in una notte di veglia attorno ad un banchetto, consumato «in fretta e con i fianchi cinti» segno e modello di liberazione. Ora siamo seduti attorno al banchetto della alleanza nuova, senza più fretta, ma sempre pronti a ripartire per essere segno e strumento di ogni liberazione in favore di ogni singolo individuo e popolo. E’ il banchetto che anticipa quello finale della fine della storia: è il Corpus Domini. Dal banchetto al banchetto: è questa la dimensione storica della Chiesa pellegrina che di Eucaristia in Eucaristia cammina verso la Gerusalemme celeste. Il banchetto eucaristico è il «memoriale» della consegna a noi del «mistero pasquale» nel sacramento «fonte e culmine» della Chiesa e anticipo del banchetto escatologico alla fine dei tempi.
Oggi operiamo un passaggio: dal simbolo alla realtà e prendiamo coscienza che il banchetto a cui siamo convocati come invitati è partecipazione diretta e attiva alla comunione con il Signore che mette «piatto» la sua stessa vita. L’espressione «carne e sangue» oggi potrebbe fare sorridere perché potrebbe accusarci, come durante le persecuzioni del sec. I, di cannibalismo. E’ un’espressione tipicamente ebraica per dire «fragile vita». Per gli antichi il sangue è sede della vita, mentre «carne» indica tutto ciò che è opposto a «spirito» e quindi fragile, caduco, morituro. Nella «carne e sangue» Dio si fa accessibile a noi perché assume la nostra fragile umanità nella quale trasfonde la sua vita immortale facendosi «comunione» con noi, in noi e per noi.
Il «mistero» è tutto qui ed è un mistero molto chiaro ed evidente: Dio Padre, Figlio e Spirito Santo restano per sempre con noi, pongono la dimora divina in noi e fanno di noi la tenda del convegno, la tenda dell’incontro e della comunione. Ora noi possiamo accedere al mistero trinitario perché Dio s’incarna ancora una volta nella fragilità della parola annunciata e nella povertà del pane e del vino. Dio consegna a noi la sua vita come nutrimento e noi ne possiamo disporre secondo le nostre esigenze. L’Eucaristia definitivamente strappa da cima a fondo il velo del tempio perché c’introduce nel «sancta sanctorum» dell’intimità con Dio.
S.S. CORPO E SANGUE DI CRISTO
03/06/2018
S.S. CORPO E SANGUE DI CRISTO – Tu ci disseti, Signore, al calice della gioia
SOLENNITA’ DEL SIGNORE
COMMENTO e SCHEDA STORICA di:
PAOLO FARINELLA Prete
Spunti di omelia
Oggi celebriamo il corpo, anzi la carne. La parola carne, in ebr. basàr e in gr. sarx, indica in rapporto ai viventi tutto ciò che è corruttibile, fragile, mortale. Carne si oppone a Dio che è eterno, onnipotente e spirituale. Nel NT la parola carne ricorre 158 volte circa e ha sempre il significato di creaturalità/uomo/essere vivente finito. Il suo opposto è ciò che si riferisce a «spirito/spirituale». Tutta la fede cristiana è una tensione tra carnalità e spiritualità: questa tensione non si risolve nella negazione della prima a vantaggio della seconda perché la fede cristiana è tutta carnalità e tutta spiritualità, in forza dell’audace affermazione di Gv 1,14: «Il Lògos-carne fu fatto».
La solennità del Corpo e del sangue del Signore ci conferma in questa prospettiva e ci obbliga a prendere coscienza che l’Eucaristia è il sacramento principe di questa realtà «materiale». Il Cristianesimo non è nemico della materia, del corpo e della sensibilità, al contrario esso valorizza ciò che è materiale perché lo riconosce e lo assume nella sua creaturalità, svuotandolo di ogni presunzione di sacralità. Oggi, infatti, noi celebriamo il «pane», il «vino» o per usare un linguaggio biblico: « la carne e il sangue».
La solennità del «corpus domini» è quindi l’immersione nella materia fisica, anzi nella gracilità della condizione umana che ora è anche la dimensione di Dio, l’eterno incarnato nella fragile consistenza di un pane e di un vino poveri alimenti della mensa dei poveri. Non è un banchetto succulento o ricco, è solo un pane e un vi-no: la desolazione della povertà.
Nel sacramento dell’Eucaristia come in tutti i sacramenti, la materia simbolica che esprime il senso pro-fondo della realtà è sempre un elemento della natura che è anche alimento dell’umanità come l’acqua, l’olio, il pane, il vino oppure elementi portanti della relazione umana, come il perdono e l’amore. Il senso di questi ele-menti/alimenti/relazione è rivelato da una parola formale che nel momento in cui li sottrae al loro significato materiale, li svela e li rivela come veicoli di un senso nuovo e vitale: «Questa è la mia carne… questo è il mio sangue» sono affermazioni da brivido che non possono essere più intese nel senso materiale, ma siamo costretti dalle parole stesse ad entrare in una dimensione nuova che solo la rivelazione può esprimere: carne e sangue sono la natura del Figlio di Dio, la sua vita e questa vita comunicata a noi in forma di cibo che alimenta la vita. Si forma così un circuito di comunione che alimenta in forma costante vita da vita.
Nulla è estraneo a Dio, non lo spirito, non la materia, non il nostro corpo che partecipa della sua stessa identità. Ogni giorno facendo la comunione, noi diventiamo «Corpo di Cristo» e nel momento in cui lo riceviamo noi ne prendiamo atto e con una parola solenne di fede rispondiamo:: «Amen/Tu, mio Dio, sei il mio Re Fedele», inserendoci così anche noi in una dimensione di fedeltà. Il nostro corpo è anche sede di passioni, di tendenze, di fratture, di ansie, di bisogni, di aneliti, di stanchezze, di malattie, di fatica, di pesantezza, di forza, di gioia, di tenerezza… tutto ciò fa parte della fragilità umana e in quanto tale appartiene a Dio perché oggi «nella carne di Dio» noi celebriamo «un Dio di carne».
In ebraico la parola «cuore» si dice «lebàb» (pronuncia: levàv) e insegnano i rabbini che le due «b» stanno a significare le due tendenze che animano il cuore umano: quella verso il bene e quella verso il male che non possono essere estirpate per cui bisogna amare Dio con tutte e due le tendenze, anche con la tendenza verso il male. Per questo nello Shemà Israel si dice «amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le tue forze (= tutti i tuoi averi)» (Dt 4,5). Coloro che separano lo spirito dalla carne, l’anima dal corpo fanno un’operazione antistorica e contraria alla fede. Oggi è il giorno della «fisicità» di Dio il quale raggiunge il culmi-ne di un lungo processo di incarnazione iniziata nell’esodo attraverso segni anticipatori del sacramento che oggi viviamo come realtà di fede.
Tutta la storia della salvezza prepara al punto di arrivo che è il discorso del «pane » di Gv 6. Un lungo percorso per giungere alla carnalità di Dio:
– Nel deserto il popolo è nutrito con la manna che Dio provvede (Es 16,13-15), quasi a dire che il sostentamento della vita e la vita stessa sono opera esclusiva di Dio. L’esodo della libertà è segnato e nutrito dal pane e dall’acqua che piovono dal cielo, senza concorso umano. Si direbbe che l’esodo è la fatica di Dio che porta il peso della sopravvivenza del suo popolo. Nell’esodo Dio si fa manna.
– Pane al mattino e carne alla sera ricevette anche Elia, quando fuggì dalla regina Gezabele e rifece al contrario il cammino del suo popolo: dalla terra promessa alla montagna di Dio, l’Oreb nel Sinai (1Re 17,6). Camminare verso la montagna di Dio non è una passeggiata, ma un esodo che impegna la vita stesa e bisogna essere equipaggiati per non morire lungo la strada: «Alzati, mangia perché il cammino è troppo lungo per te. Si alzò, mangiò, bevve e camminò con la forza di quel cibo quaranta giorni e quaranta notti verso il monte di Dio, l’Oreb» (1Re 19,7-8).
– La vedova di Zarepta prepara un pane per il profeta Elia. anticipo del pane eterno perché la farina della sua madia non si esaurì (1Re 17,11-16).
– Gesù stesso ricorda la manna come anticipazione del pane disceso dal cielo che ora è lui stesso, mandato dal Padre a nutrire gli uomini con la sua volontà di salvezza(Gv 6,31-33).
Ogni volta che celebriamo l’eucaristia facendo memoria condivisa del pasto di Gesù in cui volle «legarsi» definitivamente a noi e alla dimensione della nostra vita umana, noi entriamo nel «mistero pasquale» della passione, della morte, della risurrezione, dell’ascensione e della pentecoste e sperimentiamo la vita di Dio come alimento, cibo e bevanda, comunione di vita, sacramento di unità, anticipo della vita eterna.
Nel giorno in cui veneriamo e viviamo Dio in quanto corpo/carne, non possiamo non pensare ed essere uniti e solidali con tutti i corpi/carne dilaniati, squartati, violati, violentati e stuprati nel mondo. Oggi il nostro cuore è accanto ai bambini e alle bambine vittime della pedofilia, di cui si rende colpevole anche chi dovrebbe essere maestro e custode dei corpi indifesi. Oggi vogliamo essere accanto e solidali con le donne violate e vilipese nel loro corpo e quindi nella loro anima. Vogliamo essere un argine alle violenze immonde e per questo chiediamo di diventare «ostie» di frumento fragile e fragrante, simbolo di fedeltà alla Vita.
Celebrare il «corpo del Signore» significa anche prendere coscienza che questo «corpo» di Dio patisce la fame a causa della miseria causata da sistemi d’ingiustizia e di potere che si autodefiniscono cristiani. La fame di tanta parte dell’umanità, dopo duemila anni dall’incarnazione di Cristo nella nostra umanità, è la bestemmia più grave che grida al cospetto di Dio. «Dacci oggi il nostro pane quotidiano» è ancora l’urlo dei «corpi di Cristo» abbandonati alla morte per fame e miseria: fame di dignità e di decoro, fame di giustizia e decenza, fame di diritti e di ospitalità, fame di vita e di amore.
Nel ricevere «il corpo e il sangue di Cristo» nella comunione, prendiamo consapevolezza e coscienza di essere responsabili di quella di affamati nel corpo da non avere nemmeno la forza di accorgersi di avere un’anima. La nostra dimensione, quando sperimentiamo l’impotenza e la solitudine di fronte alle grandi sfide della storia, non può essere che la prospettiva sacerdotale della lettera agli Ebrei 10,5-8, quella prospettiva esige da noi che diventiamo come Lui «corpo e sangue» che si spezza e si effonde per la condivisione dei poveri:
«5Tu non hai voluto né sacrificio né offerta, un corpo invece mi hai preparato. 6 Non hai gradito né olocausti né sacrifici per il peccato. 7 Allora io dico: Ecco, io vengo – perché di me sta scritto nel rotolo del libro – per fare, o Dio, la tua volontà».
Queste parole, oggi, solennità del Corpus Domini, sono Parola di Dio, profezia annunciata su ciascuno di noi, perché ora, qui e adesso, nel momento della comunione con la Sua Carne e il Suo Sangue, ciascuno possa di-re: «Ecco, io vengo, o mio Re Fedele, per fare la Tua Volontà!», cioè «Amen!Amen!».
FARINELLA
CORPUS DOMINI – Scheda Storica
La solennità del «Corpo del Signore» è stata instaurata in forma privata nei secc. XII-XIII. Una suora ospedaliera belga, Giuliana di Mont-Cornillon, della diocesi di Liegi (Belgio) nel 1208 ebbe una visione in cui le apparve la luna piena con una incrinatura nel disco. Due anni dopo un’altra visione le spiegò che quella incrinatura significava la mancanza di una celebrazione autonoma dell’istituzione dell’Eucaristia. Fino ad allora, infatti, per 1200 anni ca., il «memoriale» dell’Eucaristia si celebrava sempre al giovedì santo, in un clima di mestizia e di sofferenza, dove tutto convergeva naturalmente verso il venerdì santo che prese sempre più piede fino a imporsi sugli altri giorni del triduo pasquale tanto da snaturarne il vero senso. Ciò che la suora belga chiedeva era festa specifica che celebrasse l’istituzione stessa dell’Eucaristia.
Nel 1246 per mezzo del canonico di San Martino di Liegi, Giovanni di Losanna, la suora chiese ufficialmente l’istituzione di questa festa nella sua diocesi e il Vescovo, Roberto di Torote, dopo una discussione teologica l’adottò e con decreto stabilì che la festa si celebrasse il giovedì dopo la Festa della Santa Trinità (60 giorni dopo la Pasqua), anch’essa instaurata per prima dalla stessa diocesi di Liegi che adesso vi legava anche quella della Eucaristia con un intento evidente: tutta la vita trinitaria di Dio si manifesta e si compie nel sacramento del pane e del vino. La suora fece comporre una ufficiatura propria della festa che cominciava con le parole «Animarum cibus», di cui è rimasto solo qualche frammento. La festa fu celebrata solennemente per la prima volta nel 1247 a Liegi.
Con proprio decreto del 29 dicembre 1253 inviato alle autorità religiose e ai fedeli della sua legazione, il card. Ugo di San Caro, legato papale in Germania, non solo confermava il decreto istitutivo della festa del vescovo di Liegi, ma lo estendeva ai territori di sua pertinenza, concedendo anche una speciale indulgenza alle chiese in cui si celebrava la nuova solennità.
Partito il legato da Liegi, la festa fu contrastata da molti ecclesiastici che vi si opposero tanto che la celebrazione fu solo officiata nella chiesa di San Martino di Liegi, dove era iniziata. Nel 1258 moriva suor Giuliana di Mont-Cornillon, lasciando l’eredità dell’impegno eucaristico ad una suora di nome Eva e sua confidente. Il 29 agosto 1261 divenne papa Giacomo Pantaleone col nome di Urbano IV che quando era arcidiacono a Liegi aveva conosciuto la beata Giuliana. Su sollecitazione del vescovo suor Eva scrive al papa chiedendo il riconoscimento ufficiale della festa. Il papa non solo istituisce la festa del Corpus Domini, ma l’estende anche a tutta la chiesa.
A questa scelta il papa fu spinto anche da un fatto miracoloso. Un prete boemo, Pietro da Praga, aveva dei dubbi sulla trasformazione del pane e del vino nel corpo e sangue di Cristo. Nel 1263 mentre celebrava la Messa sulla tomba di Santa Cristina a Bolsena, vide delle gocce di sangue stillare dall’ostia consacrata che si depositarono sul corporale e sul pavimento. Egli corse dal papa Urbano IV che si trovava a Orvieto. Verificato il miracolo e visto il corporale (oggi conservato ad Orvieto), il papa istituì la festa del Corpus Domini.
San Tommaso d’Aquino ricevette l’incarico di comporre l’intero ufficio della festa secondo il rito romano che ancora oggi sostituisce quello originario francese. Si narra che San Tommaso scrisse l’intero ufficio in ginocchio davanti al tabernacolo appoggiandosi direttamente sull’altare. Si stabilì definitivamente che la festa fosse celebrata il giovedì (feria quinta) dopo l’ottava di Pentecoste che coincideva con il giovedì successivo alla festa della Trinità, cioè 60 giorni dopo la Pasqua, come aveva stabilito il vescovo di Liegi. Questo in teoria. Di fatto la norma papale non ebbe seguito a motivo dei torbidi militari che infestavano l’Italia e bisognò aspettare ancora 40 anni prima che il Corpus Domini diventasse di fatto e di diritto festa della chiesa universale per opera di papa Clemente V, ma specialmente di papa Giovanni XXII. Era l’anno 1318.
E’ passato più di un secolo dalla visione di suor Giuliana di Mont-Cornillon.
La solennità del Corpus Domini – Corpo del Signore è un ulteriore prolungamento della Pasqua che abbiamo vissuto in una notte di veglia attorno ad un banchetto, consumato «in fretta e con i fianchi cinti» segno e modello di liberazione. Ora siamo seduti attorno al banchetto della alleanza nuova, senza più fretta, ma sempre pronti a ripartire per essere segno e strumento di ogni liberazione in favore di ogni singolo individuo e popolo. E’ il banchetto che anticipa quello finale della fine della storia: è il Corpus Domini. Dal banchetto al banchetto: è questa la dimensione storica della Chiesa pellegrina che di Eucaristia in Eucaristia cammina verso la Gerusalemme celeste. Il banchetto eucaristico è il «memoriale» della consegna a noi del «mistero pasquale» nel sacramento «fonte e culmine» della Chiesa e anticipo del banchetto escatologico alla fine dei tempi.
Oggi operiamo un passaggio: dal simbolo alla realtà e prendiamo coscienza che il banchetto a cui siamo convocati come invitati è partecipazione diretta e attiva alla comunione con il Signore che mette «piatto» la sua stessa vita. L’espressione «carne e sangue» oggi potrebbe fare sorridere perché potrebbe accusarci, come durante le persecuzioni del sec. I, di cannibalismo. E’ un’espressione tipicamente ebraica per dire «fragile vita». Per gli antichi il sangue è sede della vita, mentre «carne» indica tutto ciò che è opposto a «spirito» e quindi fragile, caduco, morituro. Nella «carne e sangue» Dio si fa accessibile a noi perché assume la nostra fragile umanità nella quale trasfonde la sua vita immortale facendosi «comunione» con noi, in noi e per noi.
Il «mistero» è tutto qui ed è un mistero molto chiaro ed evidente: Dio Padre, Figlio e Spirito Santo restano per sempre con noi, pongono la dimora divina in noi e fanno di noi la tenda del convegno, la tenda dell’incontro e della comunione. Ora noi possiamo accedere al mistero trinitario perché Dio s’incarna ancora una volta nella fragilità della parola annunciata e nella povertà del pane e del vino. Dio consegna a noi la sua vita come nutrimento e noi ne possiamo disporre secondo le nostre esigenze. L’Eucaristia definitivamente strappa da cima a fondo il velo del tempio perché c’introduce nel «sancta sanctorum» dell’intimità con Dio.