Lettura degli Atti degli Apostoli 7, 2-8. 11-12a. 17. 20-22. 30-34. 36-42a. 44-48a. 51-54
Stefano, uno dei sette scelti dalla comunità per il servizio alle mense, si dimostra un credente adulto e appassionato che, insieme agli apostoli, a Gerusalemme, compie “prodigi davanti al popolo” e imposta una riflessione assolutamente nuova agli orecchi degli ebrei credenti. Egli mette al centro Gesù come valore di pienezza a cui orientare la propria vita. Verso Gesù si sono orientati anche Mosé e i profeti (6,8). E se alcuni “si alzarono a discutere con Stefano, non riuscivano a resistere alla sapienza e allo Spirito con cui egli parlava” (6,9-10).
Una sommossa tra gli ebrei colti, con una raffica di false testimonianze, lo accusano come provocatore contro l’ebraismo, riuscendo, in tal modo, a portare Stefano davanti al sommo sacerdote per essere giudicato. E poiché viene chiesto a Stefano di giustificarsi su tutto quello di cui lo accusano, Stefano inizia una lunga riflessione sulla storia d’Israele e il suo itinerario verso il Messia. Il testo che leggiamo non è completo (si vede dalla citazione), e tuttavia ci indica una predicazione biblica che si è sviluppata non solo nelle chiese ebraiche di Gerusalemme, ma, soprattutto nelle sinagoghe elleniste, in particolare, per la riflessione lunga e, si può dire, dettagliata e significativa per chi non conosce molto il Primo Testamento. Il testo si divide in varie parti: il comportamento di Dio con Abramo (7,2-8), con Giuseppe, (7, 9-16), con Mosé (7, 17-43), con il suo popolo infedele e qui inserisce lacune riflessioni sulla costruzione del tempio) (7, 44- 50). Infine Stefano denuncia le responsabilità del popolo che non ha saputo vedere in Gesù il Messia e il “Giusto”(7, 51- 53). La conclusione della testimonianza di Stefano porta all’obbligo di riscoprire Gesù come la convergenza dell’azione di Dio e del cammino del popolo d’Israele nella storia.
Poiché una delle accuse, che gli vengono fatte, riguarda il tempio di Salomone e prima ancora, nel deserto “la tenda della testimonianza” dove il popolo d’Israele pone e garantisce la presenza di Dio con il suo popolo, Stefano rifiuta una presenza esclusiva e ricorda Isaia (66,1- 2) ” Così dice il Signore: «Il cielo è il mio trono, la terra lo sgabello dei miei piedi. Quale casa mi potreste costruire? In quale luogo potrei fissare la dimora? 2 Tutte queste cose ha fatto la mia mano ed esse sono mie – oracolo del Signore. Su chi volgerò lo sguardo? Sull’umile e su chi ha lo spirito contrito e su chi trema alla mia parola”.
Stefano, in particolare, vuole sviluppare la memoria riguardante la vicenda di Mosé. Si preoccupa, infatti, di ricordare che fu Mosé a dire ai figli d’Israele: “Dio vi farà sorgere un profeta tra i vostri fratelli, al pari di me” (Deut 18,15).
Prima lettera di san Paolo apostolo ai Corinzi 2, 6-12
La vera sapienza non è data a tutti ma a coloro che Dio ama. Essa non si ottiene nello sfoggio di sottili ragionamenti come fanno alcuni credenti, a Corinto, imitando i filosofi. E credono così di dimostrare il valore della sapienza cristiana.
Paolo ha fatto sulla sua pelle l’esperienza della ricerca della sapienza e, credendo nelle sue forze e nel valore di una intelligente retorica, andando ad Atene, in mezzo a persone di cultura, nell’areopago (il più antico tribunale di Atene), ha tentato di proporre la fede di Gesù.
Inizialmente ha parlato della dignità di ogni essere umano come Figlio di Dio, ha apprezzato il senso religioso che sviluppa nel mondo greco un culto anche verso il Dio nascosto e sconosciuto. Ma poi si è impegnato nell’annuncio di Gesù morto e risorto. E, a questo punto, la curiosità e l’attenzione degli ateniesi sono sfumate nella derisione e lo hanno abbandonato (At 17,22-34).
In tal modo Paolo giudica severamente le persone che si vorrebbero comportare allo stesso modo, fidando sui propri ragionamenti umani. La fede cristiana non pone dimensioni irrazionali, certamente, ma orienta verso scelte che vanno oltre il normale buon senso.
Paolo ricorda l’atteggiamento iniziale che ha portato nel cuore al primo incontro con i Corinzi: “Mi sono presentato in debolezza e con molto timore e trepidazione” (1Cor 2, 3-4).
Ma il messaggio da portare era ed è stupefacente. E’ necessario rivelare la Sapienza di Dio, ricevuta per mezzo dello Spirito. Essa manifesta i misteri di Dio (v. 10). La Sapienza è rimasta nascosta, i dominatori non hanno potuto conoscerla (vv 7-8), “Ma ora è stato consegnato il mistero taciuto per secoli eterni ” (Rom 16,25-26). Essa è l’invito e la garanzia della salvezza universale, noto solo a Dio da tutta l’eternità, per una umanità incapace di superare tutte le lacerazioni, le divisioni, i razzismi. Questo mistero, legato al nome dello Spirito, spinge a scoprire l’attenzione di Dio ad ogni persona, a sentirlo Padre di ogni essere umano, ad avere coscienza di essere fratelli e sorelle in una sola famiglia, responsabili per ogni altro di una vita dignitosa e libera. Paolo sta insistendo perché la nuova Sapienza cristiana sia alla vigilia di una consapevolezza per tutto il mondo. Prima di tutto siamo noi che dobbiamo maturare responsabilmente, nel nostro cuore, il significato di ogni persona per Dio che crea e per Gesù che ama fino alla morte. In questa lettura si scopre il significato del Crocifisso che è la sapienza vera, scandalo per i giudei e stoltezza per i pagani (1,18-25).
Lettura del Vangelo secondo Giovanni. 17, 1b-11
Il capitolo 17 del Vangelo di Giovanni riporta la “preghiera sacerdotale” di Gesù, pronunciata nell’ultima cena come il suo ultimo discorso prima della passione.
Si può considerare questo testo come una terza rilettura della preghiera del Getsemani, dopo i due interventi precedenti, pronunciati sempre nell’ultima cena di Gesù: i capp 13-14 e capp 15-16, che corrispondono e si richiamano.
In questa lettura si riassume tutta la vita di Gesù: egli si fa preghiera e preghiera di intercessione. Egli, allargando via via l’orizzonte, prega per se stesso (1-5), per i discepoli (6-19), per la Chiesa (20-26).
La preghiera di intercessione. Gesù prega per i suoi e, in questa preghiera, raggiunge gli estremi confini della terra. Nel salmo 99,6 si ricorda l’intercessione di Mosé (che ha la funzione di comando e di giudice), di Aronne (che ha una funzione sacerdotale), e di Samuele (che ha la funzione profetica): “Mosè e Aronne tra i suoi sacerdoti, Samuele tra quanti invocavano il suo nome: invocavano il Signore ed egli rispondeva”. L’intercessione sviluppa un dialogo con Dio nelle tre dignità fondamentali di Gesù: re, sacerdote e profeta, trasmesse anche a noi nel valore della nostra preghiera di battezzati.
Dio avvisa Mosè che rinnegherà il suo popolo che si è fatto un idolo, rifiutando così di vivere secondo la sua Parola. Dio vuole, anzi, cancellarlo. E mentre lo comunica a Mosè, unico fedele rimasto, gli offre la possibilità di diventare capostipite di una nuova nazione. Ma Mosé prega per il suo popolo, rifiuta la prospettiva suggerita e richiama a Dio il fatto che quel popolo, che egli sta accompagnando, è proprio quel popolo che il Signore stesso aveva voluto liberare. Mosè si rifiuta di abbandonare la sua gente (Es 32,10-14), e rifiuta, quindi, anche la prospettiva che gli viene offerta. Egli paga la sua intercessione. Non avrà la possibilità di entrare nella terra promessa. Muore “sulla bocca di Dio”, traducono i rabbini. ” Mosé muore con un bacio di Dio “. (Sono tante le versioni e le motivazioni per l’esclusione di Mosè dalla terra promessa. Ma si dice che nella Scrittura ogni parola ha 70 interpretazioni. Comunque Mosè ha accettato di intercedere, arrivando, in tal modo, ad offrire la vita).
Pregare per qualcuno significa dare la propria vita perché ognuno, uomo o donna, possa vivere. E’ il vero commento di ciò che avviene sulla croce.
La Gloria. “E ora, Padre, glorificami davanti a te con quella gloria che io avevo presso di te prima che il mondo fosse”.(v 5). Tutta l’eternità è orientata a questo avvenimento e questo avvenimento, a sua volta, è la radice di un tempo nuovo che si apre all’infinito.
Il mondo di Gesù e quest’ora avvolgono tutta la creazione: il passato ed il futuro si innestano in un dialogo da parte di Gesù. Glorificare Dio ed essere glorificato da Dio comporta la salvezza di tutta l’umanità e di tutta la storia.
Per il mondo greco la gloria consiste in ciò che si vede, in ciò che appare. Per il mondo ebraico gloria significa ciò che conta davvero, ciò che è consistente. Ciò che semplicemente appare non ha consistenza. Ciò che conta davvero entra nella carne dell’uomo, nella sua profondità, nel rapporto con la vita e con il mondo. Acquista risonanza, eco, scambio di riconoscimento e di accoglienza.
Isaia (49,3-6) ci ricorda, parlando del Servo di Dio: “(Il Signore) mi ha detto: «Mio servo tu sei, Israele, sul quale manifesterò la mia gloria». Io ho risposto: «Invano ho faticato, per nulla e invano ho consumato le mie forze. Ma, certo, il mio diritto è presso il Signore, la mia ricompensa presso il mio Dio» E il Signore ha garantito: «Io ti renderò luce delle nazioni, perché porti la mia salvezza fino all’estremità della terra».
Il giorno della gloria, perciò, è il giorno della croce. Il servo umiliato, che prende su di sé il peccato del mondo, esprime la duplice gloria: offrire gloria al Padre ed essere glorificato da Lui poiché è garantita l’accettazione della sua offerta.
Essere in comunione: è l’elemento fondamentale che viene proposto per essere in sintonia con la gloria di Gesù.
La dimostrazione della comunione e dell’unità dei cristiani non è tanto il puntare sulla convergenza della struttura, pur significativa, che ci fa supera le lacerazioni delle varie confessioni cristiane. Quello di cui Gesù parla è, ancora più profonda, la ricerca dell’unità di comunione, l’accettare di essere in sintonia sui valori essenziali di Dio perché lo stesso Dio e la stessa sua Parola vivano in noi: in me e negli altri.
Il nome di Dio. Gesù ha manifestato “il nome di Dio” (v 6), ci ha svelato il significato e il senso della potenza di Dio, la garanzia della sua presenza. “Manifestare il nome” significa consegnare la pienezza di conoscenza, e Gesù è questo tramite. Egli ha accompagnato i discepoli ed essi hanno scoperto che il nome di Dio si personifica in Gesù. Più avanti la preghiera continua: “Padre santo, custodiscili nel tuo nome, quello che mi hai dato, perché siano una sola cosa, come noi” (v 11-12). Il custodire di Dio continua ad essere comunione con Gesù e quindi custodia in Gesù dei discepoli e della Comunità dei Figli.
L’offerta sacrificale nel tempio, attraverso gli animali uccisi, ha avuto un significato particolare. Dio aveva salvato Isacco dalla morte sacrificale, che sarebbe avvenuta per mano del padre Abramo, disposto ad ubbidire comunque a Dio, ed ha sostituto Isacco con un ariete.
Il sacrifico degli animali, di cui certo Dio non ha bisogno, è il richiamo alla sostituzione di sé con qualcosa di proprio, ma è soprattutto disponibilità all’obbedienza. Non per nulla, allora, i profeti dicevano che non erano importanti i sacrifici di animali, ma le opere di misericordia e la liberazione degli oppressi. Ora non c’è più nessuna sostituzione, ma l’offerta al Padre di Gesù è piena, profonda fino alla morte in croce in un amore disarmato e totale. Noi siamo chiamati ad aderire a Gesù, unica offerta e unica salvezza.
V DOMENICA DI PASQUA- COMMENTI ALLE LETTURE DOMENICALI
29/04/2018
V DOMENICA DI PASQUA – Lodate il Signore e proclamate le sue meraviglie
COMMENTI ALLE LETTURE DOMENICALI
Atti 7, 2-8. 11-12a. 17. 20-22. 30-34. 36-42a. 44-48a. 51-54;
Prima Corinzi 2, 6-12;
Giovanni. 17, 1b-11
don Raffaello Ciccone
Lettura degli Atti degli Apostoli 7, 2-8. 11-12a. 17. 20-22. 30-34. 36-42a. 44-48a. 51-54
Stefano, uno dei sette scelti dalla comunità per il servizio alle mense, si dimostra un credente adulto e appassionato che, insieme agli apostoli, a Gerusalemme, compie “prodigi davanti al popolo” e imposta una riflessione assolutamente nuova agli orecchi degli ebrei credenti. Egli mette al centro Gesù come valore di pienezza a cui orientare la propria vita. Verso Gesù si sono orientati anche Mosé e i profeti (6,8). E se alcuni “si alzarono a discutere con Stefano, non riuscivano a resistere alla sapienza e allo Spirito con cui egli parlava” (6,9-10).
Una sommossa tra gli ebrei colti, con una raffica di false testimonianze, lo accusano come provocatore contro l’ebraismo, riuscendo, in tal modo, a portare Stefano davanti al sommo sacerdote per essere giudicato. E poiché viene chiesto a Stefano di giustificarsi su tutto quello di cui lo accusano, Stefano inizia una lunga riflessione sulla storia d’Israele e il suo itinerario verso il Messia. Il testo che leggiamo non è completo (si vede dalla citazione), e tuttavia ci indica una predicazione biblica che si è sviluppata non solo nelle chiese ebraiche di Gerusalemme, ma, soprattutto nelle sinagoghe elleniste, in particolare, per la riflessione lunga e, si può dire, dettagliata e significativa per chi non conosce molto il Primo Testamento. Il testo si divide in varie parti: il comportamento di Dio con Abramo (7,2-8), con Giuseppe, (7, 9-16), con Mosé (7, 17-43), con il suo popolo infedele e qui inserisce lacune riflessioni sulla costruzione del tempio) (7, 44- 50). Infine Stefano denuncia le responsabilità del popolo che non ha saputo vedere in Gesù il Messia e il “Giusto”(7, 51- 53). La conclusione della testimonianza di Stefano porta all’obbligo di riscoprire Gesù come la convergenza dell’azione di Dio e del cammino del popolo d’Israele nella storia.
Poiché una delle accuse, che gli vengono fatte, riguarda il tempio di Salomone e prima ancora, nel deserto “la tenda della testimonianza” dove il popolo d’Israele pone e garantisce la presenza di Dio con il suo popolo, Stefano rifiuta una presenza esclusiva e ricorda Isaia (66,1- 2) ” Così dice il Signore: «Il cielo è il mio trono, la terra lo sgabello dei miei piedi. Quale casa mi potreste costruire? In quale luogo potrei fissare la dimora? 2 Tutte queste cose ha fatto la mia mano ed esse sono mie – oracolo del Signore. Su chi volgerò lo sguardo? Sull’umile e su chi ha lo spirito contrito e su chi trema alla mia parola”.
Stefano, in particolare, vuole sviluppare la memoria riguardante la vicenda di Mosé. Si preoccupa, infatti, di ricordare che fu Mosé a dire ai figli d’Israele: “Dio vi farà sorgere un profeta tra i vostri fratelli, al pari di me” (Deut 18,15).
Prima lettera di san Paolo apostolo ai Corinzi 2, 6-12
La vera sapienza non è data a tutti ma a coloro che Dio ama. Essa non si ottiene nello sfoggio di sottili ragionamenti come fanno alcuni credenti, a Corinto, imitando i filosofi. E credono così di dimostrare il valore della sapienza cristiana.
Paolo ha fatto sulla sua pelle l’esperienza della ricerca della sapienza e, credendo nelle sue forze e nel valore di una intelligente retorica, andando ad Atene, in mezzo a persone di cultura, nell’areopago (il più antico tribunale di Atene), ha tentato di proporre la fede di Gesù.
Inizialmente ha parlato della dignità di ogni essere umano come Figlio di Dio, ha apprezzato il senso religioso che sviluppa nel mondo greco un culto anche verso il Dio nascosto e sconosciuto. Ma poi si è impegnato nell’annuncio di Gesù morto e risorto. E, a questo punto, la curiosità e l’attenzione degli ateniesi sono sfumate nella derisione e lo hanno abbandonato (At 17,22-34).
In tal modo Paolo giudica severamente le persone che si vorrebbero comportare allo stesso modo, fidando sui propri ragionamenti umani. La fede cristiana non pone dimensioni irrazionali, certamente, ma orienta verso scelte che vanno oltre il normale buon senso.
Paolo ricorda l’atteggiamento iniziale che ha portato nel cuore al primo incontro con i Corinzi: “Mi sono presentato in debolezza e con molto timore e trepidazione” (1Cor 2, 3-4).
Ma il messaggio da portare era ed è stupefacente. E’ necessario rivelare la Sapienza di Dio, ricevuta per mezzo dello Spirito. Essa manifesta i misteri di Dio (v. 10). La Sapienza è rimasta nascosta, i dominatori non hanno potuto conoscerla (vv 7-8), “Ma ora è stato consegnato il mistero taciuto per secoli eterni ” (Rom 16,25-26). Essa è l’invito e la garanzia della salvezza universale, noto solo a Dio da tutta l’eternità, per una umanità incapace di superare tutte le lacerazioni, le divisioni, i razzismi. Questo mistero, legato al nome dello Spirito, spinge a scoprire l’attenzione di Dio ad ogni persona, a sentirlo Padre di ogni essere umano, ad avere coscienza di essere fratelli e sorelle in una sola famiglia, responsabili per ogni altro di una vita dignitosa e libera. Paolo sta insistendo perché la nuova Sapienza cristiana sia alla vigilia di una consapevolezza per tutto il mondo. Prima di tutto siamo noi che dobbiamo maturare responsabilmente, nel nostro cuore, il significato di ogni persona per Dio che crea e per Gesù che ama fino alla morte. In questa lettura si scopre il significato del Crocifisso che è la sapienza vera, scandalo per i giudei e stoltezza per i pagani (1,18-25).
Lettura del Vangelo secondo Giovanni. 17, 1b-11
Il capitolo 17 del Vangelo di Giovanni riporta la “preghiera sacerdotale” di Gesù, pronunciata nell’ultima cena come il suo ultimo discorso prima della passione.
Si può considerare questo testo come una terza rilettura della preghiera del Getsemani, dopo i due interventi precedenti, pronunciati sempre nell’ultima cena di Gesù: i capp 13-14 e capp 15-16, che corrispondono e si richiamano.
In questa lettura si riassume tutta la vita di Gesù: egli si fa preghiera e preghiera di intercessione. Egli, allargando via via l’orizzonte, prega per se stesso (1-5), per i discepoli (6-19), per la Chiesa (20-26).
La preghiera di intercessione. Gesù prega per i suoi e, in questa preghiera, raggiunge gli estremi confini della terra. Nel salmo 99,6 si ricorda l’intercessione di Mosé (che ha la funzione di comando e di giudice), di Aronne (che ha una funzione sacerdotale), e di Samuele (che ha la funzione profetica): “Mosè e Aronne tra i suoi sacerdoti, Samuele tra quanti invocavano il suo nome: invocavano il Signore ed egli rispondeva”. L’intercessione sviluppa un dialogo con Dio nelle tre dignità fondamentali di Gesù: re, sacerdote e profeta, trasmesse anche a noi nel valore della nostra preghiera di battezzati.
Dio avvisa Mosè che rinnegherà il suo popolo che si è fatto un idolo, rifiutando così di vivere secondo la sua Parola. Dio vuole, anzi, cancellarlo. E mentre lo comunica a Mosè, unico fedele rimasto, gli offre la possibilità di diventare capostipite di una nuova nazione. Ma Mosé prega per il suo popolo, rifiuta la prospettiva suggerita e richiama a Dio il fatto che quel popolo, che egli sta accompagnando, è proprio quel popolo che il Signore stesso aveva voluto liberare. Mosè si rifiuta di abbandonare la sua gente (Es 32,10-14), e rifiuta, quindi, anche la prospettiva che gli viene offerta. Egli paga la sua intercessione. Non avrà la possibilità di entrare nella terra promessa. Muore “sulla bocca di Dio”, traducono i rabbini. ” Mosé muore con un bacio di Dio “. (Sono tante le versioni e le motivazioni per l’esclusione di Mosè dalla terra promessa. Ma si dice che nella Scrittura ogni parola ha 70 interpretazioni. Comunque Mosè ha accettato di intercedere, arrivando, in tal modo, ad offrire la vita).
Pregare per qualcuno significa dare la propria vita perché ognuno, uomo o donna, possa vivere. E’ il vero commento di ciò che avviene sulla croce.
La Gloria. “E ora, Padre, glorificami davanti a te con quella gloria che io avevo presso di te prima che il mondo fosse”.(v 5). Tutta l’eternità è orientata a questo avvenimento e questo avvenimento, a sua volta, è la radice di un tempo nuovo che si apre all’infinito.
Il mondo di Gesù e quest’ora avvolgono tutta la creazione: il passato ed il futuro si innestano in un dialogo da parte di Gesù. Glorificare Dio ed essere glorificato da Dio comporta la salvezza di tutta l’umanità e di tutta la storia.
Per il mondo greco la gloria consiste in ciò che si vede, in ciò che appare. Per il mondo ebraico gloria significa ciò che conta davvero, ciò che è consistente. Ciò che semplicemente appare non ha consistenza. Ciò che conta davvero entra nella carne dell’uomo, nella sua profondità, nel rapporto con la vita e con il mondo. Acquista risonanza, eco, scambio di riconoscimento e di accoglienza.
Isaia (49,3-6) ci ricorda, parlando del Servo di Dio: “(Il Signore) mi ha detto: «Mio servo tu sei, Israele, sul quale manifesterò la mia gloria». Io ho risposto: «Invano ho faticato, per nulla e invano ho consumato le mie forze. Ma, certo, il mio diritto è presso il Signore, la mia ricompensa presso il mio Dio» E il Signore ha garantito: «Io ti renderò luce delle nazioni, perché porti la mia salvezza fino all’estremità della terra».
Il giorno della gloria, perciò, è il giorno della croce. Il servo umiliato, che prende su di sé il peccato del mondo, esprime la duplice gloria: offrire gloria al Padre ed essere glorificato da Lui poiché è garantita l’accettazione della sua offerta.
Essere in comunione: è l’elemento fondamentale che viene proposto per essere in sintonia con la gloria di Gesù.
La dimostrazione della comunione e dell’unità dei cristiani non è tanto il puntare sulla convergenza della struttura, pur significativa, che ci fa supera le lacerazioni delle varie confessioni cristiane. Quello di cui Gesù parla è, ancora più profonda, la ricerca dell’unità di comunione, l’accettare di essere in sintonia sui valori essenziali di Dio perché lo stesso Dio e la stessa sua Parola vivano in noi: in me e negli altri.
Il nome di Dio. Gesù ha manifestato “il nome di Dio” (v 6), ci ha svelato il significato e il senso della potenza di Dio, la garanzia della sua presenza. “Manifestare il nome” significa consegnare la pienezza di conoscenza, e Gesù è questo tramite. Egli ha accompagnato i discepoli ed essi hanno scoperto che il nome di Dio si personifica in Gesù. Più avanti la preghiera continua: “Padre santo, custodiscili nel tuo nome, quello che mi hai dato, perché siano una sola cosa, come noi” (v 11-12). Il custodire di Dio continua ad essere comunione con Gesù e quindi custodia in Gesù dei discepoli e della Comunità dei Figli.
L’offerta sacrificale nel tempio, attraverso gli animali uccisi, ha avuto un significato particolare. Dio aveva salvato Isacco dalla morte sacrificale, che sarebbe avvenuta per mano del padre Abramo, disposto ad ubbidire comunque a Dio, ed ha sostituto Isacco con un ariete.
Il sacrifico degli animali, di cui certo Dio non ha bisogno, è il richiamo alla sostituzione di sé con qualcosa di proprio, ma è soprattutto disponibilità all’obbedienza. Non per nulla, allora, i profeti dicevano che non erano importanti i sacrifici di animali, ma le opere di misericordia e la liberazione degli oppressi. Ora non c’è più nessuna sostituzione, ma l’offerta al Padre di Gesù è piena, profonda fino alla morte in croce in un amore disarmato e totale. Noi siamo chiamati ad aderire a Gesù, unica offerta e unica salvezza.
Tratto da Qumran2.net