IV DOMENICA DI PASQUA- commento al Vangelo Anno B -Rito Ambrosiano
22/04/2018
IV DOMENICA DI PASQUA- commento al Vangelo
Anno B -Rito Ambrosiano
Commento al Vangelo di don CLAUDIO DOGLIO
dal sito: dondoglio.wordpress.com
Il capitolo 10 del Vangelo secondo Giovanni continua immediatamente il capitolo 9. Non è una banalità; è che, in genere, il testo in cui Gesù annuncia il essere il buon Pastore viene letto separatamente dal contenuto del capitolo 9 che è il magistrale racconto del cieco nato, il quale – nella piscina di Siloe – acquista la vista per un intervento creatore di Gesù.
Di fatto l’ultimo versetto del capitolo 9 contiene un discorso diretto (è Gesù che parla) e il primo versetto del capitolo 10 continua il discorso diretto (ed è sempre Gesù che parla); non dovremmo infatti nemmeno chiudere le virgolette per poi aprirle subito dopo. Vuol dire che l’evangelista ha tenuto strettamente insieme l’episodio del cieco nato e il discorso di Gesù sul pastore esemplare.
Il contesto del racconto giovanneo
Ambientiamo questo testo. Siamo al centro del libro dei segni, quella parte del Vangelo secondo Giovanni in cui vengono presentati 7 segni fondamentali dell’opera di Gesù. I primi due hanno caratterizzato il ciclo delle istituzioni, gli altri sottolineano l’intervento di Gesù a favore dell’uomo: il paralitico comincia a camminare, il popolo nel deserto è nutrito, Gesù cammina sul mare raggiungendo i discepoli e a Gerusalemme crea la possibilità di vedere per un uomo nato cieco.
Dal capitolo 7 fino al capitolo 10 tutti i movimenti, le azioni e le parole di Gesù sono ambientati durante la festa delle Capanne, una grande festa che si celebrava – e si continua a celebrare a Gerusalemme – sei mesi dopo la Pasqua.
La luna piena di autunno caratterizza questo momento festivo che dura una settimana e ricorda il tempo in cui Israele, durante l’uscita dall’Egitto, abitò nel deserto e dimorò sotto le capanne. Diventa così una festa della provvidenza di Dio in cui si ricorda il beneficio che il Signore ha concesso, liberando il suo popolo. Durante questa festa Gesù parla al popolo, dialoga in modo anche polemico con i giudei fino a rischiare la lapidazione, fugge dal tempio e, passando, vede un uomo cieco dalla nascita, gli dà la possibilità di vedere e quell’uomo, attraverso un itinerario di fede, arriva ad aderire a Gesù, si prostra davanti a lui e lo adora dicendo: “Credo, Signore”. È il modello del catecumeno, di colui che si prepara al Battesimo e arriva all’incontro pieno con Gesù.
I farisei, che hanno assistito all’evento, criticano il fatto e si sentono in qualche modo offesi dalle parole di Gesù: «Vuoi dire che siamo ciechi anche noi?». «Se foste ciechi – ribadisce Gesù – non avreste alcun peccato, ma dal momento che avete la presunzione di dire “Noi ci vediamo”, il vostro peccato resta» e qui comincia il capitolo 10. «In verità, in verità vi dico: “Chi non entra nel recinto delle pecore dalla porta, ma vi sale da un’altra parte, è un ladro e un brigante”». Gesù sta parlando con questo gruppo di farisei che ha rimproverato di cecità spirituale; adesso allarga l’orizzonte e adopera una immagine metaforica: il recinto dove è raccolto il gregge e il ruolo del pastore che entra dalla porta per portare fuori le pecore.
Il ruolo del pastore “esemplare”
La prima parte del capitolo 10 è incentrata su questa figura molto rilevante: Gesù attribuisce a se stesso il titolo di pastore. È una qualità importante: nel mondo antico “pastore” è un titolo da re, in oriente e anche in occidente i re erano chiamati pastori dei popoli. Anche nell’Iliade il comandante supremo della spedizione achea, Agamennone, ha abitualmente l’epiteto póimena làon, cioè “pastore di popoli”. In Israele questa immagine regale del pastore ha finito però per essere attribuita a Dio: «il Signore è il mio pastore!». Quel salmo è emblematico di una fede che riconosce al Signore, e solo a lui, il titolo di pastore superando l’idea monarchica dei re terreni responsabili degli altri uomini. Dire però che il Signore è il pastore di Israele, che il popolo è il gregge del suo pascolo, è un dato tradizionale della fede biblica.
Gesù opera in questo linguaggio un cambiamento sensibile: “Io sono il bel pastore”. In genere traduciamo “buon pastore”, ma nell’originale greco Giovanni adopera l’aggettivo kalós, non agathós, e quindi propriamente non sottolinea la bontà, quanto la bellezza, non però in senso estetico, piuttosto in senso esemplare.
La mano bella, mi insegnavano da piccolo, è la destra; il bambino per salutare si sbaglia e usa la sinistra. Gli si dice “non quella, la mano bella!”. Non è che sia più bella dell’altra, però l’aggettivo “bello” anche noi lo adoperiamo spesso in senso di eccellenza, di esemplarità. Gesù è il bel pastore non perché è un bell’uomo, ma perché è il pastore esemplare, quello bello, il modello su cui gli altri devono essere realizzati, è il prototipo, è il punto di partenza.
L’uomo Gesù si qualifica come il pastore esemplare, attribuisce a sé un titolo divino, quindi una pretesa notevole; rientra in quel linguaggio provocatorio con cui Gesù non dice esplicitamente “sono Dio”, ma si qualifica come Dio e quindi rivela di avere una pretesa inaudita. Egli è il pastore come lo è Dio ed è il pastore esemplare perché è Dio, perché ha l’atteggiamento di Dio nei confronti del popolo ed è colui che passa attraverso la porta.
Gli altri invece, quelli che prescindono da lui, sono ladri e briganti, vengono per prendere, per rubare, per distruggere. Egli, in quanto pastore è venuto per dare la vita, perché gli uomini abbiano la vita in abbondanza.
“Io Sono”
Due affermazioni molto importanti troviamo in questo discorso con la consueta formula “Io sono”: è una espressione teoforica, cioè portatrice di Dio.
“Io Sono” è il nome di Dio nell’Antico Testamento, quello che abitualmente nella tradizione ebraica viene pronunciato Adonai, il tetragramma sacro YHWH, che significa “Io Sono” e Gesù lo adopera in senso forte: “Io Sono”. Talvolta nel testo, se verificate, è scritto con le iniziali maiuscole, sia la I che la S, contro le regole della nostra grammatica italiana, proprio per aiutare il lettore a comprendere che l’espressione “Io Sono” non è semplicemente pronome e verbo, ma è il nome stesso di Dio.
Con due immagini Gesù afferma il proprio ruolo unico: «Io sono la porta», «Io sono il pastore». Due immagini complementari.
La porta è lo strumento di comunicazione e Gesù è colui che mette in comunicazione cielo e terra, Dio e gli uomini; la porta è lui, per arrivare a Dio bisogna passare attraverso di lui, Dio arriva agli uomini passando attraverso Gesù. I capi del popolo, che non vogliono passare attraverso Gesù, sono qualificati come ladri e briganti. Lui è il pastore esemplare perché porta nella storia lo stile stesso di Dio, è venuto per dare la vita perché gli uomini abbiano la vita in abbondanza e conduce fuori le pecore dal recinto.
In greco il termine aulé, che è tradotto con recinto, indica anche l’aula, la corte, è termine che può indicare il tempio o il palazzo regale. Pensate nel nostro linguaggio: aulico vuol dire proprio un ambiente altolocato, è la corte regale. Portare fuori le pecore dall’aulé è immagine di esodo. Gesù sta tirando fuori le pecore di Israele dall’oppressione di una struttura religiosa negativa, sta liberando il popolo dalla schiavitù della legge, sta facendo l’esodo e sta radunando un gregge universale. Dice infatti: «Ho altre pecore che non sono di questo ovile. Anche quelle, dice, devo guidare»; in modo tale che l’umanità intera diventi un unico gregge, con un unico pastore che è il Cristo.
La festa della Dedicazione
Immediatamente dopo questo discorso l’evangelista Giovanni parla di un’altra festa, quella della Dedicazione del tempio che avveniva in inverno alcuni mesi dopo la festa delle Capanne, sempre a Gerusalemme. È una festa invernale dove fa freddo e Gesù tiene un discorso proprio relativo alla freddezza dei sentimenti dei giudei, che non accettano di essere sue pecore.
Si riprende ancora il discorso precedente e la situazione arriva alla rottura definitiva. I giudei raccolgono pietre per lapidarlo ma Gesù si allontana, fa perdere le proprie tracce: “Sfuggì dalle loro mani e ritornò di nuovo al di là del Giordano, nel luogo dove prima Giovanni battezzava e qui rimase”. Gesù scappa, si nasconde nella boscaglia del Giordano.
È un particolare narrativo importante che non troviamo nei Sinottici e Giovanni precisa questi movimenti di Gesù. Più volte è andato a Gerusalemme, più volte si allontanato dalla città santa. Durante la festa della Dedicazione – diciamo verso la fine di dicembre – Gesù si ritira da Gerusalemme e si rifugia
in una zona non abitata con una boscaglia molto intricata dove abitualmente si rifugiavano fuori legge, latitanti, persone che non volevano essere trovate; era l’ambiente dove Giovanni, ai guadi del Giordano, aveva cominciato amministrando il battesimo di penitenza.
IV DOMENICA DI PASQUA- commento al Vangelo Anno B -Rito Ambrosiano
22/04/2018
IV DOMENICA DI PASQUA- commento al Vangelo
Anno B -Rito Ambrosiano
Commento al Vangelo di don CLAUDIO DOGLIO
dal sito: dondoglio.wordpress.com
Il capitolo 10 del Vangelo secondo Giovanni continua immediatamente il capitolo 9. Non è una banalità; è che, in genere, il testo in cui Gesù annuncia il essere il buon Pastore viene letto separatamente dal contenuto del capitolo 9 che è il magistrale racconto del cieco nato, il quale – nella piscina di Siloe – acquista la vista per un intervento creatore di Gesù.
Di fatto l’ultimo versetto del capitolo 9 contiene un discorso diretto (è Gesù che parla) e il primo versetto del capitolo 10 continua il discorso diretto (ed è sempre Gesù che parla); non dovremmo infatti nemmeno chiudere le virgolette per poi aprirle subito dopo. Vuol dire che l’evangelista ha tenuto strettamente insieme l’episodio del cieco nato e il discorso di Gesù sul pastore esemplare.
Il contesto del racconto giovanneo
Ambientiamo questo testo. Siamo al centro del libro dei segni, quella parte del Vangelo secondo Giovanni in cui vengono presentati 7 segni fondamentali dell’opera di Gesù. I primi due hanno caratterizzato il ciclo delle istituzioni, gli altri sottolineano l’intervento di Gesù a favore dell’uomo: il paralitico comincia a camminare, il popolo nel deserto è nutrito, Gesù cammina sul mare raggiungendo i discepoli e a Gerusalemme crea la possibilità di vedere per un uomo nato cieco.
Dal capitolo 7 fino al capitolo 10 tutti i movimenti, le azioni e le parole di Gesù sono ambientati durante la festa delle Capanne, una grande festa che si celebrava – e si continua a celebrare a Gerusalemme – sei mesi dopo la Pasqua.
La luna piena di autunno caratterizza questo momento festivo che dura una settimana e ricorda il tempo in cui Israele, durante l’uscita dall’Egitto, abitò nel deserto e dimorò sotto le capanne. Diventa così una festa della provvidenza di Dio in cui si ricorda il beneficio che il Signore ha concesso, liberando il suo popolo. Durante questa festa Gesù parla al popolo, dialoga in modo anche polemico con i giudei fino a rischiare la lapidazione, fugge dal tempio e, passando, vede un uomo cieco dalla nascita, gli dà la possibilità di vedere e quell’uomo, attraverso un itinerario di fede, arriva ad aderire a Gesù, si prostra davanti a lui e lo adora dicendo: “Credo, Signore”. È il modello del catecumeno, di colui che si prepara al Battesimo e arriva all’incontro pieno con Gesù.
I farisei, che hanno assistito all’evento, criticano il fatto e si sentono in qualche modo offesi dalle parole di Gesù: «Vuoi dire che siamo ciechi anche noi?». «Se foste ciechi – ribadisce Gesù – non avreste alcun peccato, ma dal momento che avete la presunzione di dire “Noi ci vediamo”, il vostro peccato resta» e qui comincia il capitolo 10. «In verità, in verità vi dico: “Chi non entra nel recinto delle pecore dalla porta, ma vi sale da un’altra parte, è un ladro e un brigante”». Gesù sta parlando con questo gruppo di farisei che ha rimproverato di cecità spirituale; adesso allarga l’orizzonte e adopera una immagine metaforica: il recinto dove è raccolto il gregge e il ruolo del pastore che entra dalla porta per portare fuori le pecore.
Il ruolo del pastore “esemplare”
La prima parte del capitolo 10 è incentrata su questa figura molto rilevante: Gesù attribuisce a se stesso il titolo di pastore. È una qualità importante: nel mondo antico “pastore” è un titolo da re, in oriente e anche in occidente i re erano chiamati pastori dei popoli. Anche nell’Iliade il comandante supremo della spedizione achea, Agamennone, ha abitualmente l’epiteto póimena làon, cioè “pastore di popoli”. In Israele questa immagine regale del pastore ha finito però per essere attribuita a Dio: «il Signore è il mio pastore!». Quel salmo è emblematico di una fede che riconosce al Signore, e solo a lui, il titolo di pastore superando l’idea monarchica dei re terreni responsabili degli altri uomini. Dire però che il Signore è il pastore di Israele, che il popolo è il gregge del suo pascolo, è un dato tradizionale della fede biblica.
Gesù opera in questo linguaggio un cambiamento sensibile: “Io sono il bel pastore”. In genere traduciamo “buon pastore”, ma nell’originale greco Giovanni adopera l’aggettivo kalós, non agathós, e quindi propriamente non sottolinea la bontà, quanto la bellezza, non però in senso estetico, piuttosto in senso esemplare.
La mano bella, mi insegnavano da piccolo, è la destra; il bambino per salutare si sbaglia e usa la sinistra. Gli si dice “non quella, la mano bella!”. Non è che sia più bella dell’altra, però l’aggettivo “bello” anche noi lo adoperiamo spesso in senso di eccellenza, di esemplarità. Gesù è il bel pastore non perché è un bell’uomo, ma perché è il pastore esemplare, quello bello, il modello su cui gli altri devono essere realizzati, è il prototipo, è il punto di partenza.
L’uomo Gesù si qualifica come il pastore esemplare, attribuisce a sé un titolo divino, quindi una pretesa notevole; rientra in quel linguaggio provocatorio con cui Gesù non dice esplicitamente “sono Dio”, ma si qualifica come Dio e quindi rivela di avere una pretesa inaudita. Egli è il pastore come lo è Dio ed è il pastore esemplare perché è Dio, perché ha l’atteggiamento di Dio nei confronti del popolo ed è colui che passa attraverso la porta.
Gli altri invece, quelli che prescindono da lui, sono ladri e briganti, vengono per prendere, per rubare, per distruggere. Egli, in quanto pastore è venuto per dare la vita, perché gli uomini abbiano la vita in abbondanza.
“Io Sono”
Due affermazioni molto importanti troviamo in questo discorso con la consueta formula “Io sono”: è una espressione teoforica, cioè portatrice di Dio.
“Io Sono” è il nome di Dio nell’Antico Testamento, quello che abitualmente nella tradizione ebraica viene pronunciato Adonai, il tetragramma sacro YHWH, che significa “Io Sono” e Gesù lo adopera in senso forte: “Io Sono”. Talvolta nel testo, se verificate, è scritto con le iniziali maiuscole, sia la I che la S, contro le regole della nostra grammatica italiana, proprio per aiutare il lettore a comprendere che l’espressione “Io Sono” non è semplicemente pronome e verbo, ma è il nome stesso di Dio.
Con due immagini Gesù afferma il proprio ruolo unico: «Io sono la porta», «Io sono il pastore». Due immagini complementari.
La porta è lo strumento di comunicazione e Gesù è colui che mette in comunicazione cielo e terra, Dio e gli uomini; la porta è lui, per arrivare a Dio bisogna passare attraverso di lui, Dio arriva agli uomini passando attraverso Gesù. I capi del popolo, che non vogliono passare attraverso Gesù, sono qualificati come ladri e briganti. Lui è il pastore esemplare perché porta nella storia lo stile stesso di Dio, è venuto per dare la vita perché gli uomini abbiano la vita in abbondanza e conduce fuori le pecore dal recinto.
In greco il termine aulé, che è tradotto con recinto, indica anche l’aula, la corte, è termine che può indicare il tempio o il palazzo regale. Pensate nel nostro linguaggio: aulico vuol dire proprio un ambiente altolocato, è la corte regale. Portare fuori le pecore dall’aulé è immagine di esodo. Gesù sta tirando fuori le pecore di Israele dall’oppressione di una struttura religiosa negativa, sta liberando il popolo dalla schiavitù della legge, sta facendo l’esodo e sta radunando un gregge universale. Dice infatti: «Ho altre pecore che non sono di questo ovile. Anche quelle, dice, devo guidare»; in modo tale che l’umanità intera diventi un unico gregge, con un unico pastore che è il Cristo.
La festa della Dedicazione
Immediatamente dopo questo discorso l’evangelista Giovanni parla di un’altra festa, quella della Dedicazione del tempio che avveniva in inverno alcuni mesi dopo la festa delle Capanne, sempre a Gerusalemme. È una festa invernale dove fa freddo e Gesù tiene un discorso proprio relativo alla freddezza dei sentimenti dei giudei, che non accettano di essere sue pecore.
Si riprende ancora il discorso precedente e la situazione arriva alla rottura definitiva. I giudei raccolgono pietre per lapidarlo ma Gesù si allontana, fa perdere le proprie tracce: “Sfuggì dalle loro mani e ritornò di nuovo al di là del Giordano, nel luogo dove prima Giovanni battezzava e qui rimase”. Gesù scappa, si nasconde nella boscaglia del Giordano.
È un particolare narrativo importante che non troviamo nei Sinottici e Giovanni precisa questi movimenti di Gesù. Più volte è andato a Gerusalemme, più volte si allontanato dalla città santa. Durante la festa della Dedicazione – diciamo verso la fine di dicembre – Gesù si ritira da Gerusalemme e si rifugia
in una zona non abitata con una boscaglia molto intricata dove abitualmente si rifugiavano fuori legge, latitanti, persone che non volevano essere trovate; era l’ambiente dove Giovanni, ai guadi del Giordano, aveva cominciato amministrando il battesimo di penitenza.