Tutto il capitolo 45 è una riflessione teologica su ciò che è avvenuto al popolo d’Israele in esilio. Stiamo infatti parlando di fatti avvenuti nel secolo VI a.C. a Babilonia.
Finalmente Dio ha mantenuto la sua promessa e ha suscitato un suo Messia: Ciro, re dei Medi e dei Persiani, il quale trionfa sui Babilonesi e diventa l’esecutore della giustizia di Dio nel suo popolo. Eletto e protetto da Dio, egli è stato sostenuto unicamente per realizzare il piano di Dio verso il suo popolo ed è diventato così, anche se non lo sa, portatore dell’onnipotenza di Dio a scapito delle varie pretese degli idoli: questa è la lettura che il popolo d’Israele ha maturato a proposito della vittoria di Ciro.
Il testo che leggiamo oggi, a ben guardare, appartiene nel suo linguaggio ad una specie di discussione giudiziaria. Sono invitati “i superstiti delle nazioni” cioè i popoli sopravvissuti tra quelli liberati e richiamati ad una verifica: “Raccontate, presentate le prove, consigliatevi pure insieme” (21). Tutti gli idoli, che essi pregano, non hanno fatto nulla per tenerli in vita e liberarli. L’unico, che è potente ed ha operato veramente, è il Dio degli ebrei, Giusto e Salvatore.
Qui, perciò, non si chiede tanto la conversione quanto il “Rivolgetevi a me e sarete salvi”. Dio chiede che ci si orienti verso di lui in modo libero e personale e che si accetti di rileggere la storia secondo le linee che questo Dio ha tracciato. Egli garantisce di offrire la verità e, poiché tutti la dovranno riconoscere, saranno costretti a piegare il ginocchio e a ritenerla come punto di riferimento fondamentale, stabile e garantito per ogni giuramento.
Lettera di san Paolo apostolo ai Filippesi3, 13b – 4, 1
Paolo sta scrivendo alla comunità cristiana di Filippi che ricorda con molta fiducia e molta simpatia.
Questa lettera, probabilmente, è scritta attorno agli anni 57 d.C. da Efeso e il contesto, che si intravede, è quello del carcere. Gesù è al centro della ricerca dell’apostolo e, in questa lettera, si scorgono spunti per due autobiografie. Il testo, che leggiamo oggi, fa parte della seconda autobiografia e riflette le tensioni e le lotte che, nella stessa comunità cristiana, si stanno costituendo e che lui, per primo, ha dovuto affrontare. Paolo parla dei nemici di Gesù e li qualifica come coloro che “hanno il ventre come il loro Dio e si vantano di ciò di cui dovrebbero vergognarsi”. La nostra immediata reazione è di immaginare che questi siano rimproverati per il loro comportamento sessuale. Pare invece che la loro inimicizia verso il Signore Gesù sia costituita dal voler tornare alle antiche usanze ebraiche della circoncisione e delle pratiche tradizionali: selezione del cibo riproposto in puro e impuro, digiuni, relazioni esterne consentite o aborrite. Si potrebbe vedere qui il richiamo al “ventre”: è tutto ciò che Paolo stesso ha abbandonato, considerandolo spazzatura.
Infatti, proprio lui, così zelante anche nel perseguitare i cristiani, ha ritenuto di dover lasciare tutte le osservanze e la legge, che lo identificavano come ebreo, per afferrarsi e stringersi solo a Cristo e alla sua giustizia. Paolo arriva a considerarle spazzatura in confronto con Cristo, anche se, in sé, tali non sono, perché sono state la sua vita fino ad allora. E se ogni osservanza è spazzatura, quando viene accostata alle proposte di Cristo, per sé potrebbero costituire un aiuto ed un primo passo per giungere alla comunione con Gesù.
Senza pretendere di voler fare un elogio di sé, Paolo si definisce un corridore “verso la meta per arrivare al premio che Dio ci chiama a ricevere lassù in Cristo Gesù.” Si risente il gusto dell’entusiasmo per le Olimpiadi a cui i greci sono affezionati: così questa esaltazione rende il paragone molto più vivace.
Paolo ricorda che i cristiani sono “perfetti”, ma questo non vale in senso morale, quanto in una lettura vocazionale: cioè i cristiani sono chiamati alla perfezione di Dio nella pienezza di Gesù. Perciò, mantenendo l’immagine ricordata precedentemente, Paolo, se ha parlato inizialmente di correre con gli occhi fissi alla meta che è Gesù (v 14), poi incoraggia i cristiani a camminare, continuando sulla stessa sua linea e, come i corridori fanno, tenendo d’occhio colui che li precede (v 17). In tal modo possono misurarsi, misurare lo sforzo e non sbagliare. Così ogni cristiano deve tenere d’occhio Paolo e coloro che si comportano secondo l’esempio di Paolo stesso.
Quando pensiamo ai nemici, richiamati come in questo caso, normalmente pensiamo a coloro che non credono. Paolo invece ricorda che i nemici sono nella comunità stessa, quando coscientemente non si sforzano di seguire le linee di Gesù e pretendono di imporre la propria volontà e le proprie prospettive agli altri, legando sé e tutti “alle cose della terra”.
Poiché Paolo parla ai cristiani di Filippi, non va dimenticato che la città mantiene un particolare richiamo all’imperatore di Roma per le vicende di alcuni decenni prima, portate a termine da Cesare Augusto. Così egli è stato chiamato Salvatore. Paolo dice, senza fare nessun espresso riferimento all’impero, che il vero Liberatore e Salvatore è il Signore Gesù Cristo.
Il camminare dei cristiani ha come meta il cielo poiché “la nostra cittadinanza è nei cieli e di là aspettiamo come salvatore il Signore Gesù Cristo”. Questo obbliga tutti noi a sentirci nella vocazione di una risurrezione piena, a somiglianza di Gesù “il quale trasfigurerà il nostro misero corpo per conformarlo al suo corpo glorioso” (v 21). Egli sarà il segno di un potere che investe tutta la creazione e sappiamo che il mondo, per la fede che portiamo, è già carico della speranza di una trasfigurazione in Gesù che avverrà “in virtù del potere che egli ha di sottomettere a sé tutte le cose” (v 21).
Lettura del Vangelo secondo Matteo13, 47-52
Con questo brano Matteo chiude il terzo dei cinque discorsi di Gesù, riportati nel suo Vangelo e il numero cinque rispecchia, probabilmente, il suggerimento che le parole di Gesù siano la”nuova legge” (per gli ebrei cinque sono i libri della legge antica). Questo terzo discorso, impostato sul Regno e riletto attraverso 7 parabole, prevalentemente di stile agricolo, conduce, dalla esperienza della vita quotidiana, a ripensare alle caratteristiche misteriose del cammino della Comunità cristiana nella ricerca del Padre e dei suoi criteri di vita. Leggiamo qui l’ultima delle sette parabola e alcune raccomandazioni che Gesù fa ai discepoli.
La pesca è una delle attività importanti, soprattutto al nord, nella Galilea, in rapporto con il lago e i mestieri di molti dei 12 apostoli.
Probabilmente, con le reti a strascico, vengono raccolti molti pesci senza poterli selezionare all’inizio, ovviamente. La rete è la comunità dei credenti che strappa dal maligno (il mare è il luogo della morte e del male per gli ebrei). La pesca porta lontano dalla voragine e in piena luce. Finalmente l’umanità è salvata e non è più soggetta al maligno.
È evidente il parallelismo con la parabola della gramigna o zizzania (13,24-30). In tutte e due le situazioni si ricorda la mescolanza inevitabile tra pesci buoni e cattivi, tra grano e zizzania, nel momento in cui la rete viene tirata su dall’acqua, o nel tempo della semina, della crescita del grano e della gramigna, del raccolto. Possiamo sentirci autorizzati ad attribuire anche questa narrazione alla situazione di impazienza messianica provocata da Cristo. Nel frattempo Gesù vuole insegnare che la sua presenza non segna ancora il momento della separazione e, quindi, del giudizio finale.
E tuttavia Matteo insiste molto sulla conclusione: egli utilizza immagini drammatiche di fornaci e di fuoco poiché sono i parametri, usati dagli scribi nell’identificare il rifiuto di Dio: quello dell’uomo che si allontana da Dio e la conseguenza di questa scelta. Le immagini terribili che il Vangelo pone nel giudizio e nella condanna sono avvertimento ai cristiani ed hanno il compito di custodire la fatica e la speranza, nonostante le difficoltà e le incomprensioni. Questi richiami intendono mantenere la fedeltà dei credenti in un comportamento di grande valore etico.
Alla fine delle sette parabole Gesù pone una domanda conclusiva su tutte e chiede la condivisione ai discepoli. Gli rispondono che le hanno capite. Allora Gesù delinea il compito di ogni credente. Bisogna fare sintesi tra il patrimonio di valori che si sono maturati, la Parola di Dio ricevuta, le proposte dei Profeti che si sono ereditate, (Gesù parla ad ebrei) e tutto quello che la presenza di Gesù nel mondo ha svelato, proponendo una sapienza nuova, progetti e criteri impensati, che però sono stati rivelati e mostrati. E ad ogni scriba, che si fa discepolo, il padrone di casa affida un compito preciso: aprire la porta della casa e accogliere gli ospiti, offrendo loro in dono cose nuove e cose antiche. Ogni scriba diventa così un nuovo maestro perché discepolo di Gesù e quindi partecipe della rivoluzione ultima del Padre.
E se l’interpretazione in modo coerente e completo per tutta la Scrittura ha come riferimento il “nuovo”, che dà significato e pienezza all’antico, l’interpretazione può e deve allargarsi al nuovo della storia così come il Signore ce la presenta. I cristiani sono invitati a ripensare ai “segni dei tempi” che svelano insieme Dio e il cammino dello Spirito del tempo, il cammino di Gesù ma anche la conoscenza delle diverse culture che si sono sviluppate nella storia. E’ necessario intravedervi il buono ed inserirvi la speranza e la liberazione che Gesù ha portato.
E’ il lavoro, iniziato dal Concilio, perché si colga la ricchezza dei popoli, senza dover passare, necessariamente, attraverso il filtro e la conversione della cultura dell’Occidente. Per potere incontrare Gesù, ogni cultura, poiché esprime la vita di un popolo, è carica di segni e di attese già per se stessa. È il grande lavoro che la comunità cristiana deve poter fare nei cinque continenti, è la previsione che i missionari hanno accettato di mettere in conto.
E’ il gravoso e difficile compito della teologia che, faticosamente, deve risalire un cammino interpretativo, pur soggetta a difficoltà ed anche ad errori, e però umilmente, imparando a verificare e sempre più a capire.
II DOMENICA DOPO LA DEDICAZIONE- commento alle letture
II domenica dopo la Dedicazione (Anno A)
29/10/2017
don Raffaello Ciccone
Commento su Isaia. 45, 20-23; Filippesi3, 13b – 4, 1;Matteo13, 47-52
Lettura del profeta Isaia. 45, 20-23
Tutto il capitolo 45 è una riflessione teologica su ciò che è avvenuto al popolo d’Israele in esilio. Stiamo infatti parlando di fatti avvenuti nel secolo VI a.C. a Babilonia.
Finalmente Dio ha mantenuto la sua promessa e ha suscitato un suo Messia: Ciro, re dei Medi e dei Persiani, il quale trionfa sui Babilonesi e diventa l’esecutore della giustizia di Dio nel suo popolo. Eletto e protetto da Dio, egli è stato sostenuto unicamente per realizzare il piano di Dio verso il suo popolo ed è diventato così, anche se non lo sa, portatore dell’onnipotenza di Dio a scapito delle varie pretese degli idoli: questa è la lettura che il popolo d’Israele ha maturato a proposito della vittoria di Ciro.
Il testo che leggiamo oggi, a ben guardare, appartiene nel suo linguaggio ad una specie di discussione giudiziaria. Sono invitati “i superstiti delle nazioni” cioè i popoli sopravvissuti tra quelli liberati e richiamati ad una verifica: “Raccontate, presentate le prove, consigliatevi pure insieme” (21). Tutti gli idoli, che essi pregano, non hanno fatto nulla per tenerli in vita e liberarli. L’unico, che è potente ed ha operato veramente, è il Dio degli ebrei, Giusto e Salvatore.
Qui, perciò, non si chiede tanto la conversione quanto il “Rivolgetevi a me e sarete salvi”. Dio chiede che ci si orienti verso di lui in modo libero e personale e che si accetti di rileggere la storia secondo le linee che questo Dio ha tracciato. Egli garantisce di offrire la verità e, poiché tutti la dovranno riconoscere, saranno costretti a piegare il ginocchio e a ritenerla come punto di riferimento fondamentale, stabile e garantito per ogni giuramento.
Lettera di san Paolo apostolo ai Filippesi3, 13b – 4, 1
Paolo sta scrivendo alla comunità cristiana di Filippi che ricorda con molta fiducia e molta simpatia.
Questa lettera, probabilmente, è scritta attorno agli anni 57 d.C. da Efeso e il contesto, che si intravede, è quello del carcere. Gesù è al centro della ricerca dell’apostolo e, in questa lettera, si scorgono spunti per due autobiografie. Il testo, che leggiamo oggi, fa parte della seconda autobiografia e riflette le tensioni e le lotte che, nella stessa comunità cristiana, si stanno costituendo e che lui, per primo, ha dovuto affrontare. Paolo parla dei nemici di Gesù e li qualifica come coloro che “hanno il ventre come il loro Dio e si vantano di ciò di cui dovrebbero vergognarsi”. La nostra immediata reazione è di immaginare che questi siano rimproverati per il loro comportamento sessuale. Pare invece che la loro inimicizia verso il Signore Gesù sia costituita dal voler tornare alle antiche usanze ebraiche della circoncisione e delle pratiche tradizionali: selezione del cibo riproposto in puro e impuro, digiuni, relazioni esterne consentite o aborrite. Si potrebbe vedere qui il richiamo al “ventre”: è tutto ciò che Paolo stesso ha abbandonato, considerandolo spazzatura.
Infatti, proprio lui, così zelante anche nel perseguitare i cristiani, ha ritenuto di dover lasciare tutte le osservanze e la legge, che lo identificavano come ebreo, per afferrarsi e stringersi solo a Cristo e alla sua giustizia. Paolo arriva a considerarle spazzatura in confronto con Cristo, anche se, in sé, tali non sono, perché sono state la sua vita fino ad allora. E se ogni osservanza è spazzatura, quando viene accostata alle proposte di Cristo, per sé potrebbero costituire un aiuto ed un primo passo per giungere alla comunione con Gesù.
Senza pretendere di voler fare un elogio di sé, Paolo si definisce un corridore “verso la meta per arrivare al premio che Dio ci chiama a ricevere lassù in Cristo Gesù.” Si risente il gusto dell’entusiasmo per le Olimpiadi a cui i greci sono affezionati: così questa esaltazione rende il paragone molto più vivace.
Paolo ricorda che i cristiani sono “perfetti”, ma questo non vale in senso morale, quanto in una lettura vocazionale: cioè i cristiani sono chiamati alla perfezione di Dio nella pienezza di Gesù. Perciò, mantenendo l’immagine ricordata precedentemente, Paolo, se ha parlato inizialmente di correre con gli occhi fissi alla meta che è Gesù (v 14), poi incoraggia i cristiani a camminare, continuando sulla stessa sua linea e, come i corridori fanno, tenendo d’occhio colui che li precede (v 17). In tal modo possono misurarsi, misurare lo sforzo e non sbagliare. Così ogni cristiano deve tenere d’occhio Paolo e coloro che si comportano secondo l’esempio di Paolo stesso.
Quando pensiamo ai nemici, richiamati come in questo caso, normalmente pensiamo a coloro che non credono. Paolo invece ricorda che i nemici sono nella comunità stessa, quando coscientemente non si sforzano di seguire le linee di Gesù e pretendono di imporre la propria volontà e le proprie prospettive agli altri, legando sé e tutti “alle cose della terra”.
Poiché Paolo parla ai cristiani di Filippi, non va dimenticato che la città mantiene un particolare richiamo all’imperatore di Roma per le vicende di alcuni decenni prima, portate a termine da Cesare Augusto. Così egli è stato chiamato Salvatore. Paolo dice, senza fare nessun espresso riferimento all’impero, che il vero Liberatore e Salvatore è il Signore Gesù Cristo.
Il camminare dei cristiani ha come meta il cielo poiché “la nostra cittadinanza è nei cieli e di là aspettiamo come salvatore il Signore Gesù Cristo”. Questo obbliga tutti noi a sentirci nella vocazione di una risurrezione piena, a somiglianza di Gesù “il quale trasfigurerà il nostro misero corpo per conformarlo al suo corpo glorioso” (v 21). Egli sarà il segno di un potere che investe tutta la creazione e sappiamo che il mondo, per la fede che portiamo, è già carico della speranza di una trasfigurazione in Gesù che avverrà “in virtù del potere che egli ha di sottomettere a sé tutte le cose” (v 21).
Lettura del Vangelo secondo Matteo13, 47-52
Con questo brano Matteo chiude il terzo dei cinque discorsi di Gesù, riportati nel suo Vangelo e il numero cinque rispecchia, probabilmente, il suggerimento che le parole di Gesù siano la”nuova legge” (per gli ebrei cinque sono i libri della legge antica). Questo terzo discorso, impostato sul Regno e riletto attraverso 7 parabole, prevalentemente di stile agricolo, conduce, dalla esperienza della vita quotidiana, a ripensare alle caratteristiche misteriose del cammino della Comunità cristiana nella ricerca del Padre e dei suoi criteri di vita. Leggiamo qui l’ultima delle sette parabola e alcune raccomandazioni che Gesù fa ai discepoli.
La pesca è una delle attività importanti, soprattutto al nord, nella Galilea, in rapporto con il lago e i mestieri di molti dei 12 apostoli.
Probabilmente, con le reti a strascico, vengono raccolti molti pesci senza poterli selezionare all’inizio, ovviamente. La rete è la comunità dei credenti che strappa dal maligno (il mare è il luogo della morte e del male per gli ebrei). La pesca porta lontano dalla voragine e in piena luce. Finalmente l’umanità è salvata e non è più soggetta al maligno.
È evidente il parallelismo con la parabola della gramigna o zizzania (13,24-30). In tutte e due le situazioni si ricorda la mescolanza inevitabile tra pesci buoni e cattivi, tra grano e zizzania, nel momento in cui la rete viene tirata su dall’acqua, o nel tempo della semina, della crescita del grano e della gramigna, del raccolto. Possiamo sentirci autorizzati ad attribuire anche questa narrazione alla situazione di impazienza messianica provocata da Cristo. Nel frattempo Gesù vuole insegnare che la sua presenza non segna ancora il momento della separazione e, quindi, del giudizio finale.
E tuttavia Matteo insiste molto sulla conclusione: egli utilizza immagini drammatiche di fornaci e di fuoco poiché sono i parametri, usati dagli scribi nell’identificare il rifiuto di Dio: quello dell’uomo che si allontana da Dio e la conseguenza di questa scelta. Le immagini terribili che il Vangelo pone nel giudizio e nella condanna sono avvertimento ai cristiani ed hanno il compito di custodire la fatica e la speranza, nonostante le difficoltà e le incomprensioni. Questi richiami intendono mantenere la fedeltà dei credenti in un comportamento di grande valore etico.
Alla fine delle sette parabole Gesù pone una domanda conclusiva su tutte e chiede la condivisione ai discepoli. Gli rispondono che le hanno capite. Allora Gesù delinea il compito di ogni credente. Bisogna fare sintesi tra il patrimonio di valori che si sono maturati, la Parola di Dio ricevuta, le proposte dei Profeti che si sono ereditate, (Gesù parla ad ebrei) e tutto quello che la presenza di Gesù nel mondo ha svelato, proponendo una sapienza nuova, progetti e criteri impensati, che però sono stati rivelati e mostrati. E ad ogni scriba, che si fa discepolo, il padrone di casa affida un compito preciso: aprire la porta della casa e accogliere gli ospiti, offrendo loro in dono cose nuove e cose antiche. Ogni scriba diventa così un nuovo maestro perché discepolo di Gesù e quindi partecipe della rivoluzione ultima del Padre.
E se l’interpretazione in modo coerente e completo per tutta la Scrittura ha come riferimento il “nuovo”, che dà significato e pienezza all’antico, l’interpretazione può e deve allargarsi al nuovo della storia così come il Signore ce la presenta. I cristiani sono invitati a ripensare ai “segni dei tempi” che svelano insieme Dio e il cammino dello Spirito del tempo, il cammino di Gesù ma anche la conoscenza delle diverse culture che si sono sviluppate nella storia. E’ necessario intravedervi il buono ed inserirvi la speranza e la liberazione che Gesù ha portato.
E’ il lavoro, iniziato dal Concilio, perché si colga la ricchezza dei popoli, senza dover passare, necessariamente, attraverso il filtro e la conversione della cultura dell’Occidente. Per potere incontrare Gesù, ogni cultura, poiché esprime la vita di un popolo, è carica di segni e di attese già per se stessa. È il grande lavoro che la comunità cristiana deve poter fare nei cinque continenti, è la previsione che i missionari hanno accettato di mettere in conto.
E’ il gravoso e difficile compito della teologia che, faticosamente, deve risalire un cammino interpretativo, pur soggetta a difficoltà ed anche ad errori, e però umilmente, imparando a verificare e sempre più a capire.
Tratto da Qumran2.net