V DOMENICA DOPO PENTECOSTE – COMMENTO DI PAOLO FARINELLA prete
09/07/2017
V DOMENICA DOPO PENTECOSTE
PAOLO FARINELLA prete – Spunti di omelia
Se dovessimo sintetizzare in una sola frase la liturgia di oggi, avremmo un compito facile, perché potremmo dire semplicemente: «la svolta»; quella che, quando arriva, determina un cambiamento radicale nella vita, un punto di non ritorno.
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Lc 9,51-62
51 Mentre stavano compiendosi i giorni in cui sarebbe stato elevato in alto, Gesù prese la ferma decisione di mettersi in cammino verso Gerusalemme 52 e mandò messaggeri davanti a sé. Questi si incamminarono ed entrarono in un villaggio di Samaritani per preparargli l’ingresso. 53 Ma essi non vollero riceverlo, perché era chiaramente in cammino verso Gerusalemme. 54 Quando videro ciò, i discepoli Giacomo e Giovanni dissero: «Signore, vuoi che diciamo che scenda un fuoco dal cielo e li consumi?». 55 Si voltò e li rimproverò. 56 E si misero in cammino verso un altro villaggio. 57 Mentre camminavano per la strada, un tale gli disse: «Ti seguirò dovunque tu vada». 58 E Gesù gli rispose: «Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo». 59 A un altro disse: «Seguimi». E costui rispose: «Signore, permettimi di andare prima a seppellire mio padre». 60 Gli replicò: «Lascia che i morti seppelliscano i loro morti; tu invece va’ e annuncia il regno di Dio». 61Un altro disse: «Ti seguirò, Signore; prima però lascia che io mi congedi da quelli di casa mia». 62 Ma Gesù gli rispose: «Nessuno che mette mano all’aratro e poi si volge indietro è adatto per il regno di Dio». Parola del Signore.
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In Lc la decisione di Gesù di dirigersi decisamente in direzione di Gerusalemme è la «svolta»: segna la vita di Gesù e anche lo stesso 3° Vangelo, perché con il brano di oggi comincia la sezione che va sotto il titolo di «viaggio». Traduciamo in modo letterale il primo versetto, Lc 9,51: «Avvenne poi quando furono riempiti/compiuti completamente i giorni della sua assunzione/innalzamento [al cielo], egli indurì/irrigidì la faccia [decidendo] di partire verso Gerusalemme». Ancora una volta ci troviamo di fronte al verbo del compimento biblico, qui costruito con un prefisso «syn-pleròō» che rafforza e quasi raddoppia il senso base del verbo: «ri-empio completamente/ com-pleto/av-vicino». Esprime un compimento senza ritorno, irreversibile, espresso anche plasticamente dall’indurimento della sua faccia.
È chiara anche l’intenzione di Lc di richiamare la figura del «Servo di Yhwh» che dice: «Il Signore Dio mi assiste, per questo non resto svergognato, per questo rendo la mia faccia dura come pietra, sapendo di non restare confuso» (Is 50,7). Già all’inizio del viaggio verso Gerusalemme sappiamo che le coordinate della città santa saranno quelle della missione del Servo di Yhwh: immolazione, sopruso, morte e glorificazione. Indurire la faccia è un gesto che facciamo quotidianamente quando, dopo avere tergiversato alquanto, decidiamo di prendere una decisione: stringiamo i denti e tendiamo i muscoli facciali, accompagnandoli con una stretta dei pugni.
Si direbbe che Gesù adesso intravveda il suo destino, conosca la sua conclusione: potrebbe scappare, tornare indietro, andare per altra via, invece «indurì la faccia per partire verso Gerusalemme», la città del destino di Dio e dell’uomo, la città della pienezza dell’umanità in contraddizione. Il compimento, la pienezza si ha solo a Gerusalemme, che è il simbolo della mèta di ogni vita e di ogni percorso. In questo brano vi sono molte reminiscenze che richiamano il Vangelo di Giovanni: il compimento del tempo (cf Gv 13,1); l’innalzamento di Gesù al cielo che Gv chiama con un termine specifico, «glorificazione» (cf Gv 7,39; 2; e la decisa volontà di Gesù di non sottrarsi alla sua missione (cf Gv 18,4; 19,11). Questo versetto è centrale non solo nel Vangelo di Lc, ma in tutta la rivelazione, perché qui ci viene prospettato in anteprima che il destino di Gesù è la morte: è il mistero di Dio.
Solo quando Dio muore, l’uomo lo può incontrare, perché un Dio disteso in un corpo inanimato non fa paura e non suscita terrore: la debolezza di Dio diventa il sostegno della forza dell’uomo. Ognuno di noi ha un proprio percorso da realizzare e maturare, lungo questo cammino, incontra persone, instaura relazioni, conflitti, forse anche guerre, ma è un cammino che ciascuno deve compiere da sé: nessuno può sostituire alcuno.
Spesso noi credenti siamo presuntuosi e diamo per scontato che nel nostro percorso di fede siamo cristiani e agiamo di conseguenza. Istintivamente ci collochiamo nel NT, mentre forse siamo ancora distanti da quella nostra Gerusalemme che ci aspetta perché si compiano i giorni della nostra fede e della nostra scelta irreversibile. Gerusalemme non è solo una città. Essa è un simbolo del progetto di vita di ciascuno di noi nel tentativo di realizzare anche la dimensione vocazionale che lo Spirito ha deposto in noi. In questo senso Gerusalemme è la misura della nostra verità, il luogo geografico della fede che verifica la corrispondenza della nostra vocazione con la nostra realizzazione. Gerusalemme è il metro dell’alleanza tra Dio e noi. È necessario che ciascuno di noi salga a Gerusalemme per conoscere la dimensione della propria fede e del proprio destino.
Per il fatto che siamo nati cristiani e siamo stati battezzati nella fede della Chiesa, nel Nome della santa Trinità, non significa che siamo cristiani. Per il fatto di partecipare all’Eucaristia, non significa che siamo cristiani. Per il fatto che uno sia prete, religioso, sposato in chiesa, non significa che sia cristiano. Per il fatto che uno sia credente e praticante assiduo, non significa che sia cristiano. Essere cristiano credente significa avere incontrato Gesù di Nàzaret, averne accolto il messaggio evangelico e averne scelto la proposta di vita che ha come dimensione il regno di Dio abitato dai poveri, come legge l’agàpe di fraternità e come metodo la testimonianza con la nostra debolezza nella potenza dello Spirito del Risorto.
La domanda è: a che punto sono della mia storia della salvezza? Può darsi che oggi io sia con Àdam ed Eva, ribelli nel giardino di Eden. Oppure con Caino che uccide il fratello. Oppure con Làmech maciullato dalla vendetta. Sono in attesa del Messia con i profeti oppure sono nella notte di Giuda il traditore? Sprofondo con Pietro nell’inconsistenza del mio essere, oppure sono Giovanni ai piedi della croce per farmi carico della Madre? No! non è scontato essere cristiani, nemmeno dopo un’intera vita dedicata alla religione, ai riti e alle regole. Per essere cristiani bisogna incontrare Gesù, toccarlo, vederlo, ascoltarlo, seguirlo, sceglierlo e rischiare con lui l’avventura di Gerusalemme dove c’è la risposta ad ogni domanda. Noi non ci rendiamo conto che non vi sono due strade uguali per arrivare a Dio, ma esistono tante strade quante sono le persone e questo ci impegna in una costante ricerca e pazienza; se le strade sono tante, la modalità è una sola: noi possiamo credere solo al «modo di Gesù Cristo». Possiamo/dobbiamo condividere con gli altri il nostro percorso, le fatiche, le paure, le speranze e a nessuno possiamo/dobbiamo imporre il nostro modo di credere.
I Samaritani vogliono fare proprio questo: essi lo rifiutano prima ancora di conoscerlo. Ne hanno sentito parlare, sono gelosi perché per tradizione sono nemici giurati dei Giudei e quindi, nel loro fondamentalismo di inimicizia, perdono l’occasione di sperimentare che esiste un Giudeo diverso. Essi perdono l’occasione di incontrare un loro amico, un Giudeo che quando deve paragonare Dio a qualcuno non lo paragona ad un altro Giudeo, ma proprio ad un Samaritano (cf Lc 10,30-37), e quando deve elogiare la fede di qualcuno non elogia la religiosità di un Giudeo, ma il comportamento di un Samaritano (cf Lc 17,12-18), così come avendo sete in una giornata afosa, non chiede acqua ad un suo simile, ma addirittura ad una donna samaritana (cf Gv 4,26).
La risposta dei discepoli è peggio dell’atteggiamento dei Samaritani, perché essi pensano ad un regno terreno. Non vorrebbero ‘fare prigionieri’, e non sono coscienti di andare a Gerusalemme da perdenti, ma credono ad una traversata di successi. Essi non ammettono la sconfitta. Gesù con estrema pazienza insegna loro che il Regno di Dio non è appariscente, non raccoglie vittorie, ma colleziona rifiuti fino alla fine, quando gli uomini finalmente capiranno: o almeno si spera che capiscano. Di fronte all’insuccesso e al fallimento non ci si può rassegnare, bisogna solo avere pazienza e prendere il lato umano della realtà. Tutto può fallire, anche tante volte: bisogna con l’aiuto di Dio ricominciare sempre, ripartire. La pazienza cristiana ha un solo obiettivo: ricucire, ricucire sempre, senza mai stancarsi, anche quando siamo stanchi e distrutti.
Come si riesce in questo cammino faticoso verso Gerusalemme? La risposta è al v. 56: «E si misero in cammino verso un altro villaggio», che significa andare verso un nuovo orizzonte, cambiare direzione, cercare altri motivi, verificare altre ragioni. Dentro di noi c’è sempre un samaritano che rifiuta e c’è sempre un altro villaggio da raggiungere. Per conoscere l’uno e l’altro bisogna interrogare lo Spirito Santo, cioè vivere abitualmente la dimensione di Dio.
Dopo questi incidenti, Gesù fa tre esperienze di adesione a lui, ma nessuna è libera perché ciascuno ha un proprio disegno che condiziona la disponibilità appena offerta. Uno che dicesse ad un’altra persona: ti amo a condizione che… ha già dichiarato finito uno pseudo-amore che non è nemmeno cominciato. Le risposte di Gesù alle tre tipologie di discepolato hanno in comune una sola esigenza: chi decide di seguire Gesù deve fare vita comune con lui: nella provvisorietà (cf Lc 9,58), nella priorità (cf Lc 9,60), nell’affettività (cf Lc 9,61-62). La difficoltà nel seguire Gesù è lo stile di vita povera che rende liberi dalle cose, dalla famiglia, dagli affetti. Tutto diventa relativo perché il credente assume in sé lo stato di vita del Figlio che, avendo messo il Padre prima di ogni cosa, corre verso Gerusalemme, incurante di ogni ostacolo di qualsiasi genere.
Al tempo di Gesù ogni scuola rabbinica aveva regole precise e ciascuna si distingueva per la maggiore o minore severità. Nel brano di oggi Gesù si presenta come un rabbino molto esigente, perché ai suoi discepoli non chiede atteggiamenti servili o di obbedienza, ma chiede la vita, e la chiede tutta intera, senza sconti (cf Lc 9,58. 60. 62). In questo Gesù è diverso da Elìa, che permette ad Eliseo di andare a salutare i suoi (cf 1Re 19,20). 6
L’assolutezza di Gesù, che apparentemente può sembrare intolleranza intransigente, ci apre ad un approfondimento ancora più decisivo. Gesù ha detto «Chi ama padre o madre più di me, non è degno di me» (Mt 10,37), che nel passo parallelo di Luca suona in modo diverso: «Se uno viene a me e non mi ama più di quanto ami suo padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo» (Lc 14,26). Nessuno di noi è in grado di amare qualcuno con quella gratuità che è propria dell’amore, ma tutti aspiriamo all’amore come risposta ai nostri bisogni. Da questa ambiguità nascono le crisi, i disaccordi, le separazioni, i conflitti e perfino le guerre. Gesù dà la soluzione: chi ama Dio riceve la forza di amare al modo di Dio e scopre nell’altro la propria carne, partecipe della stessa vita di Dio. Amare gli altri in Dio è l’unico modo per vivere la pienezza dell’amore e sperimentare la gratuità di essere amati. Se io amo Dio e l’altro ama Dio e tutti e due ci rispecchiamo in Dio, che diventa la sorgente e il fondamento dell’amore, nella relazione tra noi non vi potrà mai essere conflitto o limite o paura o odio. Noi sperimentiamo la nostra incapacità di amare quando pretendiamo di amare con le nostre sole forze e ci accorgiamo di non poterlo fare, perché istintivamente cerchiamo il nostro interesse. Solo il Dio di Gesù Cristo ci insegna ad amare senza confini, senza limiti e sempre gratuitamente. Quella che sembrava intolleranza diventa la serietà dell’amore, che quando è esigente diventa libero perché l’amore gratuito è fonte di liberazione che genera sempre discepoli, uomini e donne liberi. (dal sito Paolo Farinella prete)
V DOMENICA DOPO PENTECOSTE – COMMENTO DI PAOLO FARINELLA prete
09/07/2017
V DOMENICA DOPO PENTECOSTE
PAOLO FARINELLA prete – Spunti di omelia
Se dovessimo sintetizzare in una sola frase la liturgia di oggi, avremmo un compito facile, perché potremmo dire semplicemente: «la svolta»; quella che, quando arriva, determina un cambiamento radicale nella vita, un punto di non ritorno.
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Lc 9,51-62
51 Mentre stavano compiendosi i giorni in cui sarebbe stato elevato in alto, Gesù prese la ferma decisione di mettersi in cammino verso Gerusalemme 52 e mandò messaggeri davanti a sé. Questi si incamminarono ed entrarono in un villaggio di Samaritani per preparargli l’ingresso. 53 Ma essi non vollero riceverlo, perché era chiaramente in cammino verso Gerusalemme. 54 Quando videro ciò, i discepoli Giacomo e Giovanni dissero: «Signore, vuoi che diciamo che scenda un fuoco dal cielo e li consumi?». 55 Si voltò e li rimproverò. 56 E si misero in cammino verso un altro villaggio. 57 Mentre camminavano per la strada, un tale gli disse: «Ti seguirò dovunque tu vada». 58 E Gesù gli rispose: «Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo». 59 A un altro disse: «Seguimi». E costui rispose: «Signore, permettimi di andare prima a seppellire mio padre». 60 Gli replicò: «Lascia che i morti seppelliscano i loro morti; tu invece va’ e annuncia il regno di Dio». 61Un altro disse: «Ti seguirò, Signore; prima però lascia che io mi congedi da quelli di casa mia». 62 Ma Gesù gli rispose: «Nessuno che mette mano all’aratro e poi si volge indietro è adatto per il regno di Dio». Parola del Signore.
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In Lc la decisione di Gesù di dirigersi decisamente in direzione di Gerusalemme è la «svolta»: segna la vita di Gesù e anche lo stesso 3° Vangelo, perché con il brano di oggi comincia la sezione che va sotto il titolo di «viaggio». Traduciamo in modo letterale il primo versetto, Lc 9,51: «Avvenne poi quando furono riempiti/compiuti completamente i giorni della sua assunzione/innalzamento [al cielo], egli indurì/irrigidì la faccia [decidendo] di partire verso Gerusalemme». Ancora una volta ci troviamo di fronte al verbo del compimento biblico, qui costruito con un prefisso «syn-pleròō» che rafforza e quasi raddoppia il senso base del verbo: «ri-empio completamente/ com-pleto/av-vicino». Esprime un compimento senza ritorno, irreversibile, espresso anche plasticamente dall’indurimento della sua faccia.
È chiara anche l’intenzione di Lc di richiamare la figura del «Servo di Yhwh» che dice: «Il Signore Dio mi assiste, per questo non resto svergognato, per questo rendo la mia faccia dura come pietra, sapendo di non restare confuso» (Is 50,7). Già all’inizio del viaggio verso Gerusalemme sappiamo che le coordinate della città santa saranno quelle della missione del Servo di Yhwh: immolazione, sopruso, morte e glorificazione. Indurire la faccia è un gesto che facciamo quotidianamente quando, dopo avere tergiversato alquanto, decidiamo di prendere una decisione: stringiamo i denti e tendiamo i muscoli facciali, accompagnandoli con una stretta dei pugni.
Si direbbe che Gesù adesso intravveda il suo destino, conosca la sua conclusione: potrebbe scappare, tornare indietro, andare per altra via, invece «indurì la faccia per partire verso Gerusalemme», la città del destino di Dio e dell’uomo, la città della pienezza dell’umanità in contraddizione. Il compimento, la pienezza si ha solo a Gerusalemme, che è il simbolo della mèta di ogni vita e di ogni percorso. In questo brano vi sono molte reminiscenze che richiamano il Vangelo di Giovanni: il compimento del tempo (cf Gv 13,1); l’innalzamento di Gesù al cielo che Gv chiama con un termine specifico, «glorificazione» (cf Gv 7,39; 2; e la decisa volontà di Gesù di non sottrarsi alla sua missione (cf Gv 18,4; 19,11). Questo versetto è centrale non solo nel Vangelo di Lc, ma in tutta la rivelazione, perché qui ci viene prospettato in anteprima che il destino di Gesù è la morte: è il mistero di Dio.
Solo quando Dio muore, l’uomo lo può incontrare, perché un Dio disteso in un corpo inanimato non fa paura e non suscita terrore: la debolezza di Dio diventa il sostegno della forza dell’uomo. Ognuno di noi ha un proprio percorso da realizzare e maturare, lungo questo cammino, incontra persone, instaura relazioni, conflitti, forse anche guerre, ma è un cammino che ciascuno deve compiere da sé: nessuno può sostituire alcuno.
Spesso noi credenti siamo presuntuosi e diamo per scontato che nel nostro percorso di fede siamo cristiani e agiamo di conseguenza. Istintivamente ci collochiamo nel NT, mentre forse siamo ancora distanti da quella nostra Gerusalemme che ci aspetta perché si compiano i giorni della nostra fede e della nostra scelta irreversibile. Gerusalemme non è solo una città. Essa è un simbolo del progetto di vita di ciascuno di noi nel tentativo di realizzare anche la dimensione vocazionale che lo Spirito ha deposto in noi. In questo senso Gerusalemme è la misura della nostra verità, il luogo geografico della fede che verifica la corrispondenza della nostra vocazione con la nostra realizzazione. Gerusalemme è il metro dell’alleanza tra Dio e noi. È necessario che ciascuno di noi salga a Gerusalemme per conoscere la dimensione della propria fede e del proprio destino.
Per il fatto che siamo nati cristiani e siamo stati battezzati nella fede della Chiesa, nel Nome della santa Trinità, non significa che siamo cristiani. Per il fatto di partecipare all’Eucaristia, non significa che siamo cristiani. Per il fatto che uno sia prete, religioso, sposato in chiesa, non significa che sia cristiano. Per il fatto che uno sia credente e praticante assiduo, non significa che sia cristiano. Essere cristiano credente significa avere incontrato Gesù di Nàzaret, averne accolto il messaggio evangelico e averne scelto la proposta di vita che ha come dimensione il regno di Dio abitato dai poveri, come legge l’agàpe di fraternità e come metodo la testimonianza con la nostra debolezza nella potenza dello Spirito del Risorto.
La domanda è: a che punto sono della mia storia della salvezza? Può darsi che oggi io sia con Àdam ed Eva, ribelli nel giardino di Eden. Oppure con Caino che uccide il fratello. Oppure con Làmech maciullato dalla vendetta. Sono in attesa del Messia con i profeti oppure sono nella notte di Giuda il traditore? Sprofondo con Pietro nell’inconsistenza del mio essere, oppure sono Giovanni ai piedi della croce per farmi carico della Madre? No! non è scontato essere cristiani, nemmeno dopo un’intera vita dedicata alla religione, ai riti e alle regole. Per essere cristiani bisogna incontrare Gesù, toccarlo, vederlo, ascoltarlo, seguirlo, sceglierlo e rischiare con lui l’avventura di Gerusalemme dove c’è la risposta ad ogni domanda. Noi non ci rendiamo conto che non vi sono due strade uguali per arrivare a Dio, ma esistono tante strade quante sono le persone e questo ci impegna in una costante ricerca e pazienza; se le strade sono tante, la modalità è una sola: noi possiamo credere solo al «modo di Gesù Cristo». Possiamo/dobbiamo condividere con gli altri il nostro percorso, le fatiche, le paure, le speranze e a nessuno possiamo/dobbiamo imporre il nostro modo di credere.
I Samaritani vogliono fare proprio questo: essi lo rifiutano prima ancora di conoscerlo. Ne hanno sentito parlare, sono gelosi perché per tradizione sono nemici giurati dei Giudei e quindi, nel loro fondamentalismo di inimicizia, perdono l’occasione di sperimentare che esiste un Giudeo diverso. Essi perdono l’occasione di incontrare un loro amico, un Giudeo che quando deve paragonare Dio a qualcuno non lo paragona ad un altro Giudeo, ma proprio ad un Samaritano (cf Lc 10,30-37), e quando deve elogiare la fede di qualcuno non elogia la religiosità di un Giudeo, ma il comportamento di un Samaritano (cf Lc 17,12-18), così come avendo sete in una giornata afosa, non chiede acqua ad un suo simile, ma addirittura ad una donna samaritana (cf Gv 4,26).
La risposta dei discepoli è peggio dell’atteggiamento dei Samaritani, perché essi pensano ad un regno terreno. Non vorrebbero ‘fare prigionieri’, e non sono coscienti di andare a Gerusalemme da perdenti, ma credono ad una traversata di successi. Essi non ammettono la sconfitta. Gesù con estrema pazienza insegna loro che il Regno di Dio non è appariscente, non raccoglie vittorie, ma colleziona rifiuti fino alla fine, quando gli uomini finalmente capiranno: o almeno si spera che capiscano. Di fronte all’insuccesso e al fallimento non ci si può rassegnare, bisogna solo avere pazienza e prendere il lato umano della realtà. Tutto può fallire, anche tante volte: bisogna con l’aiuto di Dio ricominciare sempre, ripartire. La pazienza cristiana ha un solo obiettivo: ricucire, ricucire sempre, senza mai stancarsi, anche quando siamo stanchi e distrutti.
Come si riesce in questo cammino faticoso verso Gerusalemme? La risposta è al v. 56: «E si misero in cammino verso un altro villaggio», che significa andare verso un nuovo orizzonte, cambiare direzione, cercare altri motivi, verificare altre ragioni. Dentro di noi c’è sempre un samaritano che rifiuta e c’è sempre un altro villaggio da raggiungere. Per conoscere l’uno e l’altro bisogna interrogare lo Spirito Santo, cioè vivere abitualmente la dimensione di Dio.
Dopo questi incidenti, Gesù fa tre esperienze di adesione a lui, ma nessuna è libera perché ciascuno ha un proprio disegno che condiziona la disponibilità appena offerta. Uno che dicesse ad un’altra persona: ti amo a condizione che… ha già dichiarato finito uno pseudo-amore che non è nemmeno cominciato. Le risposte di Gesù alle tre tipologie di discepolato hanno in comune una sola esigenza: chi decide di seguire Gesù deve fare vita comune con lui: nella provvisorietà (cf Lc 9,58), nella priorità (cf Lc 9,60), nell’affettività (cf Lc 9,61-62). La difficoltà nel seguire Gesù è lo stile di vita povera che rende liberi dalle cose, dalla famiglia, dagli affetti. Tutto diventa relativo perché il credente assume in sé lo stato di vita del Figlio che, avendo messo il Padre prima di ogni cosa, corre verso Gerusalemme, incurante di ogni ostacolo di qualsiasi genere.
Al tempo di Gesù ogni scuola rabbinica aveva regole precise e ciascuna si distingueva per la maggiore o minore severità. Nel brano di oggi Gesù si presenta come un rabbino molto esigente, perché ai suoi discepoli non chiede atteggiamenti servili o di obbedienza, ma chiede la vita, e la chiede tutta intera, senza sconti (cf Lc 9,58. 60. 62). In questo Gesù è diverso da Elìa, che permette ad Eliseo di andare a salutare i suoi (cf 1Re 19,20). 6
L’assolutezza di Gesù, che apparentemente può sembrare intolleranza intransigente, ci apre ad un approfondimento ancora più decisivo. Gesù ha detto «Chi ama padre o madre più di me, non è degno di me» (Mt 10,37), che nel passo parallelo di Luca suona in modo diverso: «Se uno viene a me e non mi ama più di quanto ami suo padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo» (Lc 14,26). Nessuno di noi è in grado di amare qualcuno con quella gratuità che è propria dell’amore, ma tutti aspiriamo all’amore come risposta ai nostri bisogni. Da questa ambiguità nascono le crisi, i disaccordi, le separazioni, i conflitti e perfino le guerre. Gesù dà la soluzione: chi ama Dio riceve la forza di amare al modo di Dio e scopre nell’altro la propria carne, partecipe della stessa vita di Dio. Amare gli altri in Dio è l’unico modo per vivere la pienezza dell’amore e sperimentare la gratuità di essere amati. Se io amo Dio e l’altro ama Dio e tutti e due ci rispecchiamo in Dio, che diventa la sorgente e il fondamento dell’amore, nella relazione tra noi non vi potrà mai essere conflitto o limite o paura o odio. Noi sperimentiamo la nostra incapacità di amare quando pretendiamo di amare con le nostre sole forze e ci accorgiamo di non poterlo fare, perché istintivamente cerchiamo il nostro interesse. Solo il Dio di Gesù Cristo ci insegna ad amare senza confini, senza limiti e sempre gratuitamente. Quella che sembrava intolleranza diventa la serietà dell’amore, che quando è esigente diventa libero perché l’amore gratuito è fonte di liberazione che genera sempre discepoli, uomini e donne liberi. (dal sito Paolo Farinella prete)